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Il senso della Difesa al servizio della Pace

di Michele Corrado*


I conflitti armati locali o internazionali sono costantemente presenti nel nostro quotidiano. Ne sono parte così integrante che non vi prestiamo particolare attenzione. Poi accade che i mezzi di informazione ci riportino allo stato reale (o interpretato come tale) della situazione, da cui l'innesco di più campagne di condanna del male globale, cioè la guerra. In Italia, è una mia personale opinione, questo atteggiamento per quanto del tutto involontario ha come effetto primario di riproporre la condanna della guerra sul piano etico, morale e di inserirci tra coloro che vorrebbero abolire qualsiasi tipo di scontro armato, e continuare a vivere, in nome della Pace, scaricando sugli attori internazionali tutti gli oneri e tutte le colpe del caso, e sul governo di turno l’inazione costante che porta alla non risoluzione del problema.

Con questo approccio riusciamo a perseverare nella convinzione d'essere molto più avanzati di chiunque altro nella risoluzione di ogni tipo controversia grazie alla qualità di cui ci si sente unici depositari: quella di vedere e prevedere “oltre”. Peccato che tutto ciò presenti il suo rovescio: l'essere troppo "avanzati", ci impedisce di essere altrettanto compresi dagli altri... Inoltre, tendiamo a dimenticare da dove veniamo: l'Italia è il risultato di otto secoli di (lentissime) espansioni territoriali, di continue piccole grandi guerre al seguito o di Francia o Spagna (da qui il famoso e poco onorevole motto del Guicciardini "O Franza o Spagna purché se magna") che portò, fino al 1946, una piccola dinastia di nobili di montagna a diventare una monarchia capace di avere un posto alla tavola delle grandi potenze, salvo essere trattati nei momenti topici come gli ultimi arrivati.

Nella celebrazione della nostra Storia patria, hanno un ruolo importante - lo si è ricordato nel 2011 con il 150° dell'Unità d'Italia - le tre guerre di Indipendenza e la Grande Guerra, che sono state anche il risultato di un processo di ricerca e di produzione di alto profilo del settore degli armamenti. Una tradizione proseguita in epoca repubblicana che a fasi alterne viene però messa in discussione, fino a scivolare nel grottesco, perché con la legittima richiesta di abolire le guerre, nel rispetto dell'impegno della nostra Costituzione, si pretende di abolire la ricerca e la produzione di armamenti ed i conseguenti apparati militari, salvo poi lamentarci di essere "sudditi", "dipendenti" se non "servi", di non avere voce in capitolo sullo scenario internazionale. O peggio, non accettare in quale contesto viviamo, come se fossimo il Costarica e l’Islanda, gli unici Stati e non possedere le forze armate. Insomma, è come se per eliminare le malattie abolissimo la ricerca medica e gli ospedali ed il conseguente personale sanitario su cui è necessario, al contrario, investire maggiormente, dopo l'esperienza della pandemia e la scoperta di non avere adeguati piani di contrasto. Il che ci porta alla necessità di contrastare gli sprechi nella sanità pubblica, al reperimento delle risorse e, in un allargamento del discorso, alla soluzione della piaga molto italica dell'evasione e dell'elusione fiscali.

La conflittualità, come le malattie, è parte fondante degli esseri umani; pertanto va studiata, compresa e gestita. Negli ultimi ottanta anni, per il fatto che l’ultima guerra alla quale partecipammo - una guerra d'aggressione - ha avuto esito nefasto, abbiamo rimosso il concetto di conflitto armato in qualunque forma ed abbiamo demandato agli Stati Uniti, attraverso la Nato - non che avessimo grandi spazi di manovra, ma neppure ci abbiamo provato - il sistema difensivo (fino alla dissoluzione dell'Unione Sovietica si era impegnati nella cosiddetta Guerra Fredda) che ci vede in posizione strategica nel Mediterraneo, posizione che - almeno geograficamente... - non possiamo abbandonare.

Questo atteggiamento di rifiuto aprioristico del valore della Difesa - da non confondere con l'apologia della guerra - ha portato a strani effetti distorsivi, anche sulla riduzione del prestigio e della credibilità delle Forze armate, come se ciò fosse un titolo di merito e ci rendesse più meritevoli di essere accreditati a messaggeri della Pace. Eppure, il nostro apparato industriale militare è fra i primi cinque o sei del mondo, con livelli altamente sofisticati di ricerca applicata al civile, nonostante ciò si tende a smantellarlo. Cui prodest, a chi giova?

La guerra in Ucraina e le penetranti ripercussioni sul piano geopolitico che si sono registrate nell'ultimo anno (pensiamo all'incontro di ieri a Mosca tra il presidente russo Vladimir Putin e il presidente della Repubblica popolare cinese Xi Jinping) ci impongono ora più che mai di affrontare la questione dell'impegno per la Difesa, sia essa nazionale, sia essa europea. Non si tratta di "armarci e partire", ma di costruire un'ipotesi di lavoro e di ricerca anche dottrinale su come impostare un sistema di relazioni di politica internazionali che miri alla convivenza civile e al rispetto tra i popoli, fondato però sul principio della dissuasione - che in un mondo multilaterale non potrà essere ancora quello della Guerra fredda in un mondo - che al momento appare utopico realizzare con il disarmo.

Non si può, né si deve rinunciare all'utopia e dunque alla ricerca insistente della Pace. Anzi. La guerra in Ucraina è un importante banco di prova, ma se si vuole trovare una via d'uscita attraverso la diplomazia e portare gli attori al tavolo per la risoluzione del conflitto, non è secondario ricominciare a dare voce anche alla dottrina militare con cui superare, per esempio, l'invio di armi a Kiev, giusto sul piano morale, ma controproducente in prospettiva per la deriva e le compulsioni globali che potrebbe produrre nel rapporto tra le Grandi Potenze.

Dunque, oggi occorre mettere in campo il coraggio delle idee di credere nella Difesa e di riscrivere il concetto stesso di Difesa, anche se può apparire una contraddizione, per far mettere radici alla Pace.


**Col. in Ausiliaria Esercito Italiano

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