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I tre giorni dell'Agorà: educatrici ed educatori alla ricerca di nuova forza professionale

Aggiornamento: 30 mag 2023

di Amelia Andreasi Bassi


Il bilancio dell'Agorà delle Educatrici e degli Educatori promossa a Torino da Animazione Sociale[1], si deve comporre necessariamente da numeri che sono stati superiori a qualunque aspettativa. La premessa non va letta in senso trionfalistico, né autoreferenziale, ma la presenza di oltre 600 persone in arrivo da ogni parte del Paese in una delle sale del cinema Massimo da giovedì a sabato scorsi, e una media quotidiana di 150 collegamenti on line, sono la conferma della pressante domanda che la professione rivolge a sé stessa e alla società italiana, da cui si sente defraudata del proprio ruolo di educatore, nel senso letterale del termine. Ad un tempo, a decretarne l’enorme pregio dell'iniziativa, sono stati i contenuti emersi, le esperienze raccontate e le prefigurazioni di sviluppo di quella che si conferma essere una funzione cruciale per la tenuta della coesistenza civile.


I risultati del sondaggio

Partiamo dal quadro offerto dai dati del sondaggio realizzato tra 3500 educatori/trici allo scopo di fornire alcuni dei tratti principali della condizione professionale. Ebbene, l’80% degli intervistati ha dichiarato di aver scelto la professione per motivi valoriali e per interesse verso l’impegno sociale; il 72% chiede alla propria organizzazione percorsi di formazione di qualità e il 79% una maggiore retribuzione; il 49% si sente affaticato dal non riuscire a prendersi cura delle persone per mancanza di risorse a cui andrebbe aggiunto il 26% che si sente abbastanza affaticato per lo stesso motivo; lo scarso riconoscimento sociale pesa per l’ 88%, le condizioni contrattuali per l’85%.

Alla domanda “cosa aiuterebbe ad uscire dal senso di scoramento” l’84% risponde: riscoprire il valore politico della funzione educativa, il 72% una narrazione che permetta alla società di capire chi è l’educatore sociale e il 71% un contratto lavorativo più adeguato. Completa il quadro la domanda: “stai pensando di cambiare lavoro?”, il 36% risponde Sì.

Di fronte, dunque a questo panorama, Francesco d’Angella, Roberto Camerlinghi e Franco Floris della direzione di Animazione Sociale, hanno aperto i lavori indicando le ragioni per discutere insieme al fine di trovare un modo per pensarsi oltre il presente e ribadendo che esiste nel Paese un’emergenza politica e sociale di welfare e che il tema del riconoscimento del ruolo professionale dell’educatore sociale non sia tanto una questione individuale, ma sociale politica e culturale, perché si colloca nelle prospettive del welfare stesso.

Centinaia sono stati i contributi portati alla riflessione dei partecipanti che hanno interrogato il senso del lavoro educativo oggi, svolto in contesti che a causa del disinvestimento pubblico nelle politiche di welfare si confrontano con servizi più dequalificati e spesso di pura assistenza e contenimento; contributi che hanno sottolineato come essere attivatori di processi socio-educativi significhi intervenire allestendo quotidianamente condizioni di crescita, di emancipazione da stati di sofferenza, di sviluppo di autonomie e che hanno avvisato come per farlo occorra evitare il rischio della solitudine della professione resistendo alla tentazione identitaria mettendo in campo aperture e sconfinamenti, “facendo esperienza di collettività, meticcia, inedita, speciale e profana”. Qui possiamo richiamarne solo alcuni ma lo faremo cercando di tracciare un filo rosso che individui gli snodi principali della discussione.


Abbattere l'individualismo lavorando con un "noi"...

Partendo dal contributo di Andrea Marchesi (Centro Studi Riccardo Massa), il quale nell’invitare ad immaginare un presente diverso, “esercizio possibile solo con altri”, ha evidenziato come sia necessario anche per l’educatore superare la posizione dell’adattamento richiamando quanto avviene già nella scuola, la quale essendo da anni chiamata a lavorare per competenze si concentra a formare cittadini che imparino ad adattarsi anziché a promuovere una scuola capace di includere. Sulla scia di questo ragionamento Silvio Premoli, garante per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza di Milano, facendo riferimento al testo di Paulo Freire “Pedagogia dell’autonomia” sottolinea la necessità odierna di reinventare forme storiche di lotta per immaginare un’evoluzione della condizione professionale diversa da come viene raccontata, trattata, considerata, tanto dalle Istituzioni quanto dalle Organizzazioni. Egli prefigura per questo la necessità di una lotta sociale da fare con le famiglie, valorizzando la relazione, per dare parola agli utenti e costruendo con loro alleanze. Ma sulla centralità della relazione si sofferma Ugo Morelli, professore di Scienze cognitive, che partendo dall’evidenziare la tendenza in atto “ad accanirsi sull’individuo”, replicata nel lavoro psicologico e di cura, sottolinea il carattere paradossale del lavorare sull’”io” senza un “noi” dal momento che la società è fondata essenzialmente sulle relazioni. E dunque invita gli educatori ad assumere una posizione creativa e di apprendimento continuo dalle relazioni che intrattengono per creare le condizioni politiche per l’affermazione del ruolo. La creatività come capacità di dar vita all’inedito, componendo e ricomponendo tessuti relazionali, sollecitando “saperi ingenui e spontanei che insieme generano una zona di sviluppo prossimale”.


Solitudine e sradicamento professionale

I work shop non sono stati meno ricchi di contributi e di esperienze che hanno messo in evidenza le fatiche delle stesse organizzazioni a garantire la cura del lavoro dei propri educatori in un contesto di riduzione delle risorse economiche, di tempo e di spazio per la riflessività e l’apprendimento. Da questa traiettoria, emersa nell’ampiezza dei lavori di questi tre giorni e caratterizzata da elementi cruciali come la centralità delle relazioni, la creatività, la scientificità e la complessità culturale insita nel lavoro educativo, si può senz’altro intravedere una fuoriuscita dal senso di solitudine e di sradicamento vissuto in questi anni dai professionisti dell’educazione sociale e insieme la possibilità/necessità di portare alla vista della politica e dei decisori pensieri, sogni, bisogni, proponimenti, paure di milioni di persone oggi fuori dallo sguardo e dal progetto politico. Ci pare allo stesso modo sia risultato più evidente che deve essere fatto uno sforzo di narrazione di quanto avviene, di quanto di buono è in campo nel contrasto della povertà educativa e dell’emarginazione, nella promozione di autonomia, di benessere sociale, di salute, mostrando che attuatori di welfare e beneficiari sono una comunità pensante, che impara facendo, che attiva cittadinanza, che cura processi partecipativi di donne, anziani, genitori, insegnanti, ragazzi, operatori del terzo settore.

Una comunità che deve incontrare la politica nell’interesse principale della democrazia di questo Paese.



Note





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