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Finanziaria: è il solito rebus

di Emanuele Davide Ruffino


È ancora possibile parlare di Legge Finanziaria senza correre il rischio di essere etichettato fazioso a favore di una o l’altra parte: dal dibattito emerge come la preoccupazione principale delle parti in campo sia dimostrare la negatività della proposta della controparte o lanciare messaggi identitari, più che muoversi in senso propositivo con analisi vagliate nel dettaglio.

Probabilmente tutto quello che si sta scrivendo, nel bene o nel male, sulle bozze della Legge finanziaria, è vero, ma proprio per questo occorre tentare di decifrare (o decriptare) le volontà politiche e i limiti economici che sottendono alle scelte in fieri. Non si può non partire dal fatto che un sistema economico-sociale deve dotarsi di regole e di indirizzi programmatici che disegnino il possibile futuro e i criteri su cui adeguarsi ai mutamenti che la nostra società impone e che una classe politica non può esimersi dall’assumere. Troppo opportunistico sollevare critiche sulla pochezza del valore della Legge, costretta a muoversi tra deficit ed errori compiuti nel passato, ma così facendo si rischia di sottrarre ulteriore autorevolezza decisionale al potere legislativo per consegnarlo a istituzioni, sicuramente più tecnocratiche, ma che non sono state in grado di risolvere le criticità che contraddistinguono le crisi economiche in essere, anzi il ritardo con cui si è interventi sull’inflazione o sull’eccesso di moneta in circolazione che, se nel breve hanno fornito delle risposte, si stanno rilevando non sostenibili (cosa succederebbe se tornasse sui mercati l’enorme massa di titoli pubblici acquistati con il quantitative easing?).


I principi ispiratori della manovra

L’idea base degli estensori della finanziaria era di attivare un intervento significativo a favore dei redditi medio-bassi al fine di sostenere la domanda e supportare i ceti meno fortunati a superare le complessità provocate dal lockdown, prima, e poi dall’inflazione e dall’acuirsi delle crisi geopolitiche: si è cercato d’invertire il trend che voleva distribuire contributi anche ai non produttori di reddito, chiedendo un ulteriore sacrificio al ceto medio (da anni ormai dimenticato dai radar politici).

Qualsiasi sia il proposito di una Legge finanziaria è difficile resistere agli assalti alla diligenza che da sempre contraddistingue la preparazione del provvedimento. Venendo a mancare una visione ideologica della società, poche tendono ad essere le proposte concrete (se non un susseguirsi di promesse al proprio bacino elettorale) per dar spazio ad una raffica di critiche su qualsivoglia proposta formulata dalla controparte.

La novità di questa manovra e che non si potevano più fare operazioni a scapito degli equilibri economico-finanziari del sistema: a richiederlo non sono tanto i parametri europei, in questa fase coordinati da Commissario Gentiloni (che anche Lui si muove per far rispettare e che realisticamente nessuno chiede più di violare), ma l’attenzione dei mercati verso l’Italia. Con il debito accumulato dai Governi che si sono succeduti, non ci si può permettere ulteriori discese nel rating (da notare come questo governo politico sta assumendo più misure impopolari, che non quelle prese dal Governo tecnico che lo ha preceduto, che su alcuni grandi temi ha colpevolmente e incredibilmente glissato). La stesura della Finanziaria non poteva più di tanto scontrarsi con la realtà della situazione e ha dovuto rinunciare a portare avanti quelli che, imprudentemente, erano stati gli annunci preelettorali. Semmai è mancata l’onestà culturale di rivedere le posizioni alla luce del mutare della situazione e non ostinarsi a difendere ieraticamente le posizioni assunte (per mantenere sulle pensioni quota 41, ormai di interesse di un numero inconsistente di persone) si sono compromesse tutte le altre possibilità di ridare flessibilità al sistema rinunciando al ricambio generazionale che pure era un obiettivo dichiarato e che si poteva raggiungere, con le dovute accortezze (e con sacrifici il più possibile ripartiti e non a carico di pochi), senza gravare sulle finanze pubbliche.[1]


Riflessione mancata sul bene collettivo

Facile ottenere consensi quando questi comportavano aumenti nella distribuzione dei benefici senza precisare chi poi pagherà il conto: un po’ meno quando i provvedimenti richiedono una razionalizzazione: pensioni, crediti incagliati per il superbonus, contenziosi pluriennali con il fisco e, primo tra tutti, la pesantezza della macchina burocratica, rappresentano di fatto, un rallentamento del sistema che non si riesca a superare per una serie di veti incrociati (ed è questo che forse più disturba gli elettori-contribuenti).

Il sistema regge finché ogni classe sociale ritiene di poter anch’essa fruire di un qualche beneficio, ma quando il meccanismo s’inceppa, si prende coscienza che qualcuno ha fruito di ampi vantaggi e a pagare sono altri soggetti: gli 84,7 miliardi del superbonus al 110% e il pasticcio delle pensioni, dove tutto dipende da una cabala di numeri, sono gli esempi più evidenti. Ma non giovano neanche le polemiche sulle locazioni brevi (con un aggiustamento dal 21 al 26% della cedolare secca), la declinazioni degli incentivi sulle ristrutturazioni e sui mutui, le penalizzazioni per i dipendenti pubblici, la detassazione dei premi di risultato e per i lavori notturni e festivi nel settore turistico, le misura fiscali a favore del welfare aziendale, l’adeguamento di alcune aliquote IVA, le detrazioni per figli a carico etc. Nella ricerca della perfezione equidistributiva, perseguita dai giuristi (o dai legulei) si sono rese più complesse le situazioni (a scapito del buon senso e della razionalità), provocando soluzioni diametralmente opposte a quelle volute e continuando a sfalsare quelle che sono le regole che dovrebbero caratterizzare la libera concorrenza (irrisolte rimangono le questioni dei taxisti e degli stabilimenti balneari, in un clima di sempre maggiore incertezza).

Compito della politica è quello di definire le scelte da sottoporre al giudizio popolare, ma il prendere decisioni solo al fine di acquisire consensi non garantisce una visione di lungo periodo e ancor meno la conservazione del potere: quest’ultimo a sua volta dipende anche dalle alternative proposte che, se valide e realistiche, dovrebbero attirare consenso. Una democrazia si regge sulla dialettica tra posizioni diverse, e ciò porta a elaborare soluzioni razionali e non a insultare l’avversario, per poi ritrovarsi, a parti invertite, nel pronunciare gli stessi slogan, in periferia.




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