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Fasci di luce sull'informazione cosi diversi e eguali: da Jannik Sinner a Ilaria Salis

Aggiornamento: 4 feb

di Guido Tallone


Dalla finestra sul mondo rappresentata dal complesso e variegato mondo dell’informazione non si osserva solo quanto accade vicino o lontano da noi. Anche perché il compito della finestra non è solo quello di aprire l’interno all’esterno (e di permettere la visione di quanto è fuori casa). Il varco nella stanza abitualmente utilizzato per affacciarsi sulla strada, è anche una preziosa fonte di aria e di luce per ogni ambiente che ha un bisogno assoluto di ossigeno e di luminosità per restare abitabile.

Prendiamo due esempi tratti dalla cronaca di questa settimana (presentati, descritti, commentati e interpretati da tutti i media). E vediamo quali fasci di luce ci hanno consegnato per il nostro complesso convivere.


"L'educazione alla libertà"

Il primo. La vicenda legata alle straordinarie (e storiche) vittorie di Jannik Sinner. Campione che ha entusiasmato il nostro Paese tanto per i successi riportati quanto per la leggerezza (umile e sapienziale) con cui ha commentato le sue affermazioni. “Tirato per la racchetta” da moltissimi, Sinner si è presentato agli occhi di chi si affaccia alla finestra dell’informazione con una semplicità disarmante per gettare un prezioso fascio di luce sulle sempre attuali, contorte e complesse vicende educative. Per capirci. Come prima reazione alla vittoria in Australia, Sinner ha ringraziato i suoi genitori per averlo educato alla libertà: “Vorrei che tutti avessero dei genitori come quelli che ho avuto io, mi hanno permesso di scegliere quello che volevo, anche da giovane. Non mi hanno mai messo sotto pressione. Auguro a tutti i bambini di avere la libertà che ho avuto io”. Ai superficiali può essere sfuggito, ma per il nostro giovane tennista, la libertà non è fare quello che si vuole inteso come un passivo e pigro “far niente”, ma decidere in serena autonomia quale disciplina intraprendere per poi confrontarsi con le sue regole e la sua grammatica.

Un fascio di luce, dicevo, prezioso per genitori, insegnanti, allenatori ed educatori. Per ribadire a tutti coloro che sono alle prese con compiti educativi che va dato – a chi cresce – il tempo della ricerca e della prova (Sinner ricorda di aver provato e amato anche lo sci). Ma ad un certo punto – però – ci è chiesto di aiutare i nostri ragazzi a passare dalla prova e dalle superficiali simpatie alla scelta vera e propria. E una volta presa una decisione – ecco la lezione educativa che illumina chi è alle prese con infanzia e fasce giovanili – la libertà la conquista solo chi decide di camminare lungo il sentiero scelto. Ed è percorrendo quella strada scelta (!) che si fa esperienza di libertà nascosta spesso e volentieri anche tra le pieghe della fatica, dell’insuccesso e delle cadute che inevitabilmente fanno parte del procedere.

Come a dire: cari genitori e cari educatori non impegnatevi troppo a togliere difficoltà, ostacoli e possibilità di sbagliare ai vostri figli e a quanti accompagnate negli anni della crescita. Difficoltà ed errori sono ciò che ci hanno reso migliori. E saranno proprio le difficoltà affrontate (e superate) e gli errori commessi che permetteranno a chi oggi è cucciolo di diventare forte e libero.

Ma andiamo avanti con la luce gettata da questa bella testimonianza. In un momento in cui tutti si sentono in dovere di dire il loro parere sull’età a cui dare il cellulare al figlio o sui danni generati dalle tastiere lasciate precocemente e per troppo tempo al giorno nelle mani di bambini e di adolescenti, Sinner non prende parte a questo dibattito. Non vende la sua ricetta ideologica dall’alto della notorietà ottenuta. A chi lo intervista affida due piccoli, ma profondi messaggi che valgono anche come metodo educativo:

-  dichiara a voce alta i suoi gusti e il suo stile di vita (“I social non mi piacciono, non è quella la verità, vedi certe cose ma non sono quelle”. E sulla lettura afferma che “ci sono momenti in cui leggo tanto, ho sempre un libro con me dietro.”).

-   consegna direttamente ai ragazzi un invito alla vigilanza: “Ai ragazzi dico di stare attenti… personalmente vivo meglio senza i social e continuerò a fare così”.  

Bello questo fascio di luce. Senza tante prediche. E, allo stesso tempo, un grande invito perché nelle nostre città e nei nostri contesti sociali non manchino mai le opportunità per fare sport e per trovare occasioni di lettura (personale e comunitaria). Detto da un ventiduenne è un messaggio forte: palestre, centri sportivi e biblioteche aperte giorno e notte sono i più forti ingredienti – accanto al ruolo educativo esercitato dalla famiglia e dalle nostre scuole – per costruire cittadini liberi e capaci di vincere le sfide della vita. Quasi un programma elettorale in vista delle prossime elezioni amministrative.


Giustizia vendicativa e rancorosa

Il secondo scenario che si vede dalla nostra finestra informativa è una donna italiana – Ilaria Salis – che viene condotta al guinzaglio in un tribunale ungherese. È solo imputata e si presenta davanti al giudice con ceppi di cuoio ai piedi e catene alle mani “scortata” da due gendarmi con tanto di passamontagna e tuta mimetica. È una foto che ha fatto il giro del mondo e che ha scandalizzato tutti coloro che non sono disposti a separare le esigenze della giustizia penale dalla dignità della persona e i suoi inalienabili diritti umani.

Sui commenti attuati dai professionisti dello sciacallaggio alla perenne ricerca di ampliare il proprio consenso elettorale, non mi soffermo. Così come sorvolo sul disagio di chi non può commentare una scena imbarazzante perché non vuole mancare di rispetto a Paesi “amici” esperti nel calpestare i diritti delle minoranze e il dissenso interno.

La luce che proviene da questa vicenda la ricavo dal fatto che risulta sempre più evidente come la privazione della libertà esercitata dal diritto penale è – per sua natura – incapace di fermarsi e di rispettare la dignità della persona e il suo patrimonio di diritti umani. Prima di essere una questione geografica e legata ad un preciso ordinamento penale di questo o quel Paese, quella scena ci dice che è il carcere in sé che per sua natura non è quasi mai in grado di rispettare la dignità e i diritti umani. 

La lettera che Ilaria ha scritto sulla sua condizione carceraria sembra provenire da un detenuto della Bastiglia (scritta ai tempi di Voltaire): oltre alla privazione della libertà, sono presenti – nella sua detenzione preventiva – condizioni disumane rappresentate da celle infestate da scarafaggi e topi, dal letto pieno di cimici, da cibo scandente e scaduto, da mancanza di igiene (senza sapone, senza carta igienica, senza assorbenti…), senza il proprio vestiario, ma con abiti sporchi e reperiti chissà come, etc. E, come se non bastasse, anche interrogatori farsa fatti senza avvocato e senza interprete. Così gestita, la privazione della libertà amministrata dal sistema penale ungherese non appartiene al linguaggio della giustizia e della ricerca della verità storica che deve essere appurata in un giusto processo, ma alla grammatica del potere che infierisce sul presunto colpevole ritenuto colpevole prima ancora che questo venga processato e considerato da “piegare” e da punire con l’uso della violenza in quanto nemico del sistema e, dunque, da odiare con tutti i modi possibili e immaginabili.

Ma siamo sicuri che questo intreccio tra potere, violenza e odio nel sistema penale appartenga solo al sistema penitenziario ungherese? In Italia sono più di 9000 i detenuti in carcere in attesa di una prima sentenza. Sono 63.000 i detenuti nelle carceri italiane dotate di 47.300 posti agibili. Per un tasso di sovraffollamento del 127,4%. Sui suicidi nelle nostre patrie galere siamo già intervenuti su questo sito.[1] Per denunciare più di 150 suicidi nelle nostre carceri negli ultimi due anni: uno ogni cinque giorni (13 suicidi solo nel primo mese del 2024). Per ricordare ai distratti che in carcere ci si toglie la vita venti volte in più di quanto accade nel mondo libero. Per non parlare dei tanti (troppi) processi in corso ad agenti di custodia accusati di percosse, pestaggi, violenze e, in alcuni casi, anche di tortura, episodi che offendono la maggioranza degli agenti di polizia penitenziaria che svolge con grande senso di abnegazione e umanità il proprio lavoro.

Della serie: se Atene piange, Sparta non ride.


Dov'è l'Europa quando si tratta di dignità umana?

Il fascio di luce che ci proviene dalla dolorosa vicenda di Ilaria Salis – però – ci dice che il problema va oltre la geografia. A qualsiasi latitudine del globo venga amministrata la privazione della libertà in nome della giustizia, è quasi obbligato che ci si confronti anche con forme di violenza che inevitabilmente vanno a intaccare la dignità della persona e ad aggredire la sua sfera dei diritti umani. Il che significa che la storia del diritto non è ancora riuscita ad inventare forme di sicurezza sociale senza usare e senza abusare della violenza. Non tutti i Paesi sono allo stesso punto. Da alcuni anni in Italia si stanno registrando alcuni sforzi (ancora troppo pochi) per ridurre la detenzione preventiva (usandola solo come ultima risorsa, “extrema ratio” dicono gli specialisti). Ma quelle catene, quei ceppi e quel guinzaglio sono il segno che il cammino per ripensare, per riformare e per umanizzare la privazione della libertà non è ancora concluso. Certamente in Ungheria, ma anche in Italia e in ogni parte del mondo.

Mi domando – per fare un esempio – perché Ilaria abbia dovuto affrontare il carcere preventivo in Ungheria e non nel suo Paese, in Italia, considerato che i due Stati fanno entrambi parte della stessa Europa. La privazione della libertà è “pena” più che sufficiente per chi è sospettato di aver commesso un reato. Perché infierire ulteriormente sul detenuto con distanze geografiche, culturali, linguistiche e affettive? Perché non affidare il cittadino Europeo che si presume abbia commesso una illegalità al “fermo” nel suo Paese di appartenenza? Perché tenere lontano dai suoi affetti familiari chi è accusato di aver commesso un reato in un Paese diverso dal suo? Per rendere evidente il pugno di ferro del proprio potere politico? Per sottolineare chi comanda e per saldare il potere politico all’amministrazione della giustizia, al conferimento della pena e alla privazione della libertà? Per far vedere ai Paesi vicini che da noi si è più duri, più vendicativi, più intransigenti e meno inquinati dalle categorie dei diritti umani?

Fino a quando prevarranno queste logiche, l’Europa non sarà casa comune. Se ogni Stato europeo può amministrare la giustizia nella più totale autonomia e sganciata da qualsiasi criterio condiviso di rispetto della dignità della persona e dei suoi diritti, è segno che siamo ancora distanti dalla gestione della giustizia così come la tradizione europea ha costruito lungo i suoi secoli. E se non si parte dalla privazione della libertà amministrata in modo comune, condiviso e nel pieno rispetto della dignità e dei diritti delle persone “fermate”, non avremo una Giustizia comune. Ma solo un mercato comune.  Ogni Paese proverà a gestire la “sua” giustizia e le sue strutture detentive tentando di limitare come può il ricorso agli inevitabili ingredienti di odio e di violenza che ogni privazione di libertà porta con sé, ma non ci sarà regia comune. E non faremo grandi passi in avanti sul terreno della ricerca di forme alternative alla detenzione, ma ugualmente efficaci sul piano del risarcimento dei danni alle vittime di reato e della rieducazione.

Due preziosi fasci di luce.

Una per illuminare la sfera educativa e le politiche territoriali e l’altro al servizio della giustizia perché questa diventi sempre più umana.


Note


 

                                                                                 

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