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Una domanda da Genova: vince Salis, ma dov'è finito il centro?

di Giancarlo Rapetti


La sinistra festeggia i risultati delle elezioni comunali, in particolare il successo a Genova del campo larghissimo, che ha trovato in Silvia Salis, eletta Sindaco al primo turno, il “Papa straniero” capace di tenere insieme la più ampia coalizione possibile. Qualcuno si spinge già a prefigurare un altro “modello Genova” esportabile a livello nazionale, parlando di inizio della riscossa. Qualche considerazione laterale può essere avanzata. Silvia Salis è apparsa brillante, simpatica, grande comunicatrice, abilissima nel costruire una vasta alleanza intorno alla propria persona. Che Sindaco sarà, come vale per chiunque, si vedrà a consuntivo: tutti si augurano che, nell’interesse dei genovesi, confermi le aspettative. Ma la sua strada era spianata dalle circostanze. Si votava a Genova a causa delle dimissioni di Marco Bucci, che aveva lasciato anzitempo Palazzo Tursi per candidarsi in Regione, vincere, e diventare Presidente della Liguria. Bucci era un sindaco molto stimato, identificato con il “modello Genova” originale, quello che ha permesso di ricostruire il ponte sul Polcevera in poco più di un anno. Tuttavia non sembra che i genovesi, a torto o a ragione, la pensassero così. Marco Bucci ha vinto le regionali in tutte le province, ma non nella città in cui era stato Sindaco di successo. Il candidato designato dalla destra a sostituirlo, il suo vice sindaco Pietro Piciocchi, partiva zavorrato da questo svantaggio, senza essere sostenuto dallo stesso carisma personale. Insomma, senza voler nulla togliere ai meriti della nuova Prima Cittadina, sembrerebbe che i genovesi volessero una qualsivoglia alternativa che li portasse lontano dalla stagione precedente, identificata nel suo capofila Giovanni Toti.

Trascurare questi aspetti, oltre alla valenza locale delle elezioni comunali, per quanto in una grande città, potrebbe portare a distorcenti illusioni. C’è, inoltre, un altro lato del problema che non va dimenticato: guardando l’elenco delle liste a sostegno di Silvia Salis, balza evidente che ci sono tre partiti nazionali (PD, AVS, Cinque Stelle) e due liste civiche.  La componente centrista non appare: ci sono dei candidati centristi nascosti nelle liste civiche, ma i rispettivi partiti sono invisibili. Potranno esserci degli eletti, o degli assessori, provenienti da quel mondo, e per quelle persone sarà un indubbio successo personale, ma il campo larghissimo è virtuale. Agli occhi dell’elettore nazionale, il campo larghissimo coincide con il campo largo, cioè lo schieramento radical-qualunquo-populista, con il noto “fortissimo punto di riferimento”.

Alla fine, l’esito di Genova potrebbe essere una buona notizia per Giorgia Meloni. Il risultato del Partito Democratico rafforza Elly Schlein e la sua linea contro la minoranza non radical-populista e allontana la possibilità di costruire un centro sinistra moderno ed adeguato. L’unico partito visibile che si autodefinisce di centro è Forza Italia, che resta abbarbicata, per interesse e per convinzione, alla coalizione di destra. Poco conta che Forza Italia possa essere considerata di centro quanto la ruota posteriore sinistra di un camion: se nel supermercato della politica non si trova altro con l’etichetta ”centro”, che deve fare l’elettore che non ha tempo e voglia di addentrarsi nei complessi meccanismi della politique politicienne? Acquista quello che trova sugli scaffali. Insomma, anziché vedere un centro-sinistra contro la destra, troveremo un centro-destra contro la sinistra. Una sinistra, per di più, condizionata da una componente che si definisce “non di sinistra”, ma che certamente non è di centro.

Il gioco potrebbe cambiare se la galassia o arcipelago dei partiti centristi si decidesse ad uscire allo scoperto, sempre, non solo ogni tanto, facendo sinergia tra le personalità che di volta in volta riesce a mettere in campo e la forza del progetto politico complessivo. Non è probabile, ma nemmeno necessaria, l’unità organizzativa. Questi partiti, che sono in fin dei conti la diaspora di Scelta Civica di Mario Monti, contano troppi cavalli di razza (come si diceva ai tempi della Prima Repubblica) perché sia accettata una leadership unica. Ma non è un problema, può essere una ricchezza di idee; l’importante è che sappiano fare di volta in volta dei cartelli elettorali, come imposto dalle perversioni delle leggi elettorali maggioritarie.

Se questo non accade, Giorgia Meloni avrà dalla sua l’economia che va bene, non per merito, ma anche senza colpa, del suo Governo, e l’efficace propaganda su immigrazione e sicurezza. Dall’altra parte si parla di “diritti” delle minoranze, si fa una lista della spesa, senza priorità e senza coperture, e si evocano tasse e  vincoli. Poco importa che con il governo Meloni la pressione fiscale sia aumentata. I fatti sono difficili da accertare e da credere, la propaganda va diritta al cuore se tocca le corde sensibili. Per non parlare del miracolo per cui la destra oggi appare più europeista e più occidentale della sinistra. Tutti questi paradossi alimentano qualche sospetto su come andrà a finire, se i centristi non si decidono a giocare la partita, con una linea adulta, pragmatica e coerente.


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