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Punture di spillo. Cinque sì ai referendum dell’8 e 9 giugno 

a cura di Pietro Terna


Come sempre, la stessa domanda suscita reazioni e risposte diverse da persona a persona. Figurarsi una serie di domandi importanti come quelle del referendum dell’8 e 9 giugno. Rispondo per me ed è già molto… Per la quinta domanda, sull’accesso alla cittadinanza italiana con la riduzione da 10 a 5 anni del periodo di residenza legale necessario, un sì sicuro, grande come una casa: 5 anni di attesa sono persino troppi. Sulle prime quattro, la risposta è più complessa, data la storia del mio lavoro, per tanti anni dedicato al maggiore tra i sistemi di rappresentanza delle imprese, la Confindustria. Un lavoro in cui ho imparato a cercare i punti di equilibrio tra le ragioni delle parti. Ebbene, con l’affastellarsi delle normative degli ultimi anni, certamente la ragione della chiarezza è stata sacrificata e quella dei lavoratori indebolita. Quando uscì il Jobs Act, un espertissimo negoziatore di parte industriale mi chiese provocatoriamente se fosse un contratto di lavoro a tutele crescenti, come proclamavano gli autori, o piuttosto… a tutele inesistenti. Vale la seconda e ne tengo conto per votare altri quattro sì. Tra l’altro, la Corte costituzionale, con più interventi, ha cancellato le tutele crescenti.[1]

Certo si può discutere nel dettaglio sulle conseguenze non espressamente volute di un successo dei sì sui quesiti sul lavoro,[2] ma si tratta di scelte di voto che sono soprattutto segnali politici forti.[3] Ad esempio, se vincesse il sì al primo quesito, quello sui licenziamenti illegittimi, il reintegro nel posto di lavoro sarebbe di nuovo possibile oltre al risarcimento, ma solo per i licenziamenti nulli o discriminatori. Per il secondo quesito, sulla misura del risarcimento in caso di licenziamento ingiustificato, il sì lascerebbe più spazio al giudizio della magistratura. Con il terzo quesito si chiede l’introduzione della causale per la stipulazione di contratti a tempo determinato, anche al di sotto dei 12 mesi; certo comporta il rischio di maggiori casi di contenzioso in tribunale, ma elimina quello della incertezza continua di chi lavora. Con il quarto quesito si entra in una materia importantissima come la sicurezza sul lavoro, estendendo all’appaltante le responsabilità dell’appaltatore: non si possono scaricare le responsabilità a valle. Quattro sì, ribadisco, più il quinto sulla cittadinanza.

Per quale motivo rispondere invece no alle quattro domande? Perché si introducono maggiori gravami sulle piccole imprese, dicono molti. Negoziamo, rispondo io: approviamo i quesiti referendari e poi stabiliamo un confronto generale tra associazioni dei datori di lavoro, sindacati e governo, per regolare su base negoziale l’intero quadro normativo che il referendum può solo trattare per aspetti specifici e esclusivamente con la tecnica dello strappo e della lacerazione.

Al centro deve stare la vita in azienda, con la necessità di armonia, solidarietà, partecipazione, con una forma graduale di introduzione delle regole in un periodo di prova del lavoratore, verso l’azienda e viceversa; periodo ben regolato in termini aggiornati e realistici. Sarebbe una grande occasione per tutti: per le componenti economiche e sociali del paese che avrebbero la possibilità di concretizzare un apporto costruttivo aggiornato al mondo del lavoro e per l’attuale governo, che potrebbe uscire dalla logica di contrapposizione che ne informa l’azione. Non immagino accordi come quello stipulato dai personaggi della fotografia,[4] non è più tempo di grandi protagonisti come Gianni Agnelli e Luciano Lama, ma immagino all’opera concreti e volonterosi cucitori di regole per il bene comune.

Richiamo il bene comune di fronte a problemi giganteschi, come quello della povertà. Un recente studio della CGIL[5] denuncia la presenza di sei milioni di lavoratori italiani con meno di mille euro di retribuzione al mese; un altro macigno sta nel sistema scolastico che, nonostante i grandi progressi, ancora permette che ampie aree di giovani non siano aiutati a uscire dall’area del disagio e della povertà, consentendo che negli anni della formazione siano collocati, o si auto collochino, in condizioni di esclusione.

Per capire il nostro paese raccomando di passare un’oretta a consultare la recentissima pubblicazione dell’Istat[6] intitola molto semplicemente Rapporto annuale 2025. Da p. 35 traggo la figura pubblicata, in cui IPCA sta per Indice dei Prezzi al Consumo Armonizzato per i Paesi dell'Unione Europea. Il quadro che ne emerge è ben poco rassicurante, con i salari contrattuali che seguono la linea del potere d’acquisto perduto, invece di stare al di sopra, e le retribuzioni di fatto – cioè praticate nella realtà – lontane o lontanissime da quelle delle altre realtà europee con cui dovremmo sempre confrontarci.

Il governo, con il suo trionfalismo, ha letto questi dati? Rassicuro Meloni, e anche La Russa – preoccupatissimo che noi incoscienti si vada a votare per il referendum – che la figura non è una fake news: è proprio tratta dalla pubblicazione dell’Istat!

Il nostro baccelliere di musica, con la sua analisi ci porta a Dizzy Gillespie e ci invita, con il buon sapore delle arachidi salate, ad alzarci e andare a votare. Eccolo: con buona pace di Jean Jacques Rousseau, la democrazia diretta è un istituto limitato negli stati moderni. Il nostro ordinamento prevede il referendum abrogativo ma lo strumento, dopo gli entusiasmi riformatori dei primi anni ‘90, oggi è in crisi. Eppure, abbiamo assistito alla nascita e all’esplosione (nonché al ridimensionamento) di un movimento come i pentastellati, che della democrazia diretta - o di un’idea mediata e edulcorata di questa - ha fatto il proprio credo. Di fronte ai referendum c’è invece diffidenza. Figlia di un uso smodato che ne è stato fatto in un certo periodo storico e forse anche della disaffezione al voto che colpisce le democrazie mature come la nostra.

Non aiuta la previsione - costituzionale, val la pena dirlo - che stabilisce che la proposta sia approvata se vi abbia partecipato la maggioranza degli aventi diritto. Una garanzia, ma anche un elemento di ambiguità su cui hanno giocato e giocano alcune forze politiche, che invitano a votare lo status quo rimanendo a casa. Si tratta di un gioco legittimo ma non troppo sportivo e non privo di pericoli. Per il cittadino che continua a delegare. E per il politico, che corre il grave rischio di essere sonoramente sconfitto.[7] I temi questa volta riguardano i diritti dei lavoratori e la cittadinanza, argomenti sui quali non è male poter dire la propria. Quindi meglio non essere spettatori ma protagonisti. Gli spettatori si siedono e mangiano popcorn.[8] I protagonisti possono alzarsi, andare a votare, fare un balletto e gustare le Salt peanuts di Dizzy Gillespie.[9] Indubbiamente c’è più gusto.


Note

[3] Un segnale anche per i giovani: segnalo anche un breve filmato preparato da un gruppo di giovani che agisce in politica a Rivoli, visibile a https://terna.to.it/filmatoGiovaneRivoli.mp4; da nonno segnalo che la prima a parlare è Elisa Terna, mia nipote.

[7] Come accadde più di trent’anni fa a un ex presidente del consiglio.

[8] Metafora impiegata da un altro ex presidente del consiglio, più recentemente.

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