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Dopo Sidney: dolore e paure tra sionismo e antisemitismo

Aggiornamento: 14 minuti fa


di Marcello Croce


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Un articolo di Micol Meghnagi, pubblicato su “il Manifesto” del 16 dicembre, commentando l’infame attentato di Sidney, che ha tolto la vita ad almeno 15 persone, apre un problema che forse già da anni è nella coscienza di molti – benché pressoché rimosso dai circuiti del dibattito politico. Il problema è quello della distinzione tra ebraismo e sionismo.

Micol Meghnagi cita la scrittrice ebrea americana Katherin Wela Bogen, quando scrive «Sono ebrea, amo essere ebrea. Amo la mia comunità e la mia famiglia ebraica. Sono inorridita dell’aumento dell’antisemitismo violento. Sono distrutta dal dolore. E so anche come questa brutalità verrà usata per giustificare il mantenimento e il sostegno di uno Stato che sta commettendo un genocidio a Gaza. So che il nostro dolore e la nostra paura verranno strumentalizzati contro i palestinesi».


Il progetto di Theodor Herzl

E, commentando la citazione, così la Meghnagi: "Negli ultimi anni si è assistito alla tragica tendenza a silenziare o delegittimare qualunque critica alle politiche dello Stato di Israele, dietro la clava dell’antisemitismo. Ma esiste anche una direzione opposta, altrettanto tragica ed egualmente pericolosa; chi, nel nome dell’antisionismo, maschera il proprio antisemitismo, giustifica, minimizza e addirittura celebra quegli attacchi contro le minoranze ebraiche in Occidente".

Secondo Micol Meghnagi, si avrebbe un duplice interesse a identificare tra loro sionismo ed ebraismo: quello rivolto da Netanyahu contro i critici della politica di Israele, e quello rivolto dagli antisemiti contro la politica di Netanyahu. Il dolo (o il pregiudizio ideologico) di entrambi – sionisti alla Netanyahu e antisemiti – consisterebbe nel carattere pretestuoso di tale identificazione.

E certamente Meghnagi ha ragione, anch’io non ritengo legittimo identificare l’ebraismo con il sionismo: cioè il retaggio di una religione millenaria, e radice di esperienza spirituale per l’intera umanità, con le vicende storiche del progetto esposto da Theodor Herzl a Basilea nel 1897 e realizzato “a pezzi” fra le due guerre mondiali e subito dopo. La proposta di Theodore Herzl era scaturita nel clima euforico del neo-colonialismo “bianco” che nel 1884 aveva riunito a Berlino l’assemblea del mondo di allora (Usa e Giappone compresi), per santificare e legittimare in nome del progresso le pretese degli Stati europei in terra africana.

La base ideologica del progetto di Herzl era quella di “un ritorno” in Palestina, che avrebbe dato agli ebrei della diaspora millenaria la forma di uno Stato nazionale (sovranità, territorio, ripartizione della proprietà), nella sostanza non diverso da quelli appena sorti nei decenni precedenti (Germania, 1871, Italia, 1861, Romania,1859, Grecia, 1830). Non sarebbe stato diverso, se non fosse che nei casi citati si trattava di unificare popolazioni che esistevano in continuità temporale sul proprio territorio, riconoscendone la sovranità. Fino al 1914 restava in piedi l’ordine internazionale conosciuto come “jus europaeum”.


Il progetto ebraico

Tutt’altra cosa era il progetto ebraico. Gli ebrei costituivano minoranze in seno ad altri popoli, molto distanziate tra loro in tutti i sensi. La storia del sionismo, che qui non ripercorro, fu però poi quella degli intrighi internazionali di Gran Bretagna e Francia in un’area che fino al 1919 era sotto la sovranità ottomana, e che la guerra del '14 avrebbe trasformato nel bottino dei vincitori di Versailles, ai danni dell’impero sconfitto.

Iniziata alla fine del 1800, l’immigrazione in Palestina  prima del 1914 non superava le centomila unità, a fronte di poco più di seicentomila palestinesi. Le cose mutarono con il sostituirsi degli inglesi agli ottomani, quando l’immigrazione ebraica arrivò presto ad assumere il volto di guerra vera e propria con le popolazioni arabe che la abitavano. Alla vigilia del secondo conflitto mondiale la cifra dei sionisti in Palestina raggiungeva il milione, eguagliando l’entità numerica della popolazione preesistente.

Occorre comunque osservare che la propaganda sionista, molto attiva fra le due guerre, penetrò nella vita di comunità ebraiche che, in realtà, nel corso della prima guerra mondiale avevano fatto causa comune con la propria patria storica. Molte vite di ebrei infatti si sacrificarono per i propri Paesi di appartenenza, senza distinguere fra la propria religione e la divisa con la quale vi avevano preso parte. Questa osservazione non mi sembra irrilevante. È inesplorato il capitolo storico dell’incidenza della propaganda politica e ideale del sionismo – fenomeno politico allora totalmente laico e quindi non suscettibile di essere avvicinato in qualche modo all’ebraismo religioso (e forse nemmeno a quello economico-capitalistico, da cui pure riceveva appoggio) – nella vita delle comunità ebraiche ormai integrate con pienezza di diritti negli Stati europei, compresa la Urss (si pensi, per apparente paradosso, alle figure di ebrei italiani legate anche ai vertici del fascismo fino al 1938).

Tuttavia nel corso degli anni Trenta la propaganda sionista venne potenziata dalla minaccia incombente dell’antisemitismo tedesco al potere; anche la causa sionista, d’altronde, apparteneva al clima bellicista diffuso del tempo. Basta pensare a figure emblematiche come quella di un Zabotinskij o di un Abba Achimeir, senza riferimento ai quali difficile sarebbe comprendere quello che accadde in Palestina nel 1948.


Il voto delle Nazioni Unite

Come si sa, il 29 novembre del 1947 l’Assemblea Generale delle neonate Nazioni Unite, cioè dell’espressione rappresentativa del nuovo ordine mondiale instaurato a Jalta nel 1945, approvò la Risoluzione 181 (II), nota come “Piano di Partizione della Palestina”. Il Piano prevedeva di dividere la Palestina “mandataria britannica” in uno Stato ebraico (circa il 56,47% del territorio), uno Stato arabo (circa il 42,88%), e infine Gerusalemme e Betlemme sotto regime internazionale speciale (0,65%). Il Piano venne respinto dal mondo arabo, la cui rappresentanza era praticamente priva di sostegni internazionali.

È un fatto però che già dal dicembre del 1947, cioè immediatamente dopo il voto delle Nazioni Unite, avvenne l’espulsione violenta di decine di migliaia di palestinesi da parte delle organizzazioni militari ebraiche. Non si può tacere nemmeno che quanto stava avvenendo in Palestina era analogo a quanto era appena avvenuto o stava avvenendo in molte parti d’Europa, Italia compresa. Da noi ebbe luogo l’esodo di almeno 300.000 italiani dall’Istria e dalla Dalmazia; a nord circa 12 milioni di tedeschi furono costretti a lasciare terre divenute russe e polacche. Campi di concentramento, processi ed esecuzioni, espulsioni si ebbero nell’intero mondo, ma specialmente in Europa. Questo discorso potrebbe sembrare  sviante. Serve invece a mostrare il clima non canonico e disumano dell’immediato dopoguerra, entro il quale si  produsse anche lo Stato d’Israele.

Al termine della guerra del ‘48 la cifra dei palestinesi cacciati dalle loro case raggiunse la cifra di 700.000.

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Non intendo anche qui ripercorrere la storia drammatica della Palestina dopo di allora. Al carattere tipicamente colonialista della penetrazione di quanti entrarono in possesso di quelle terre, si sovrappose una componente di natura collettiva più originaria, risalente alla guerra mondiale e alle sue immense tragedie. Non v’è dubbio che lo sterminio subìto dalle comunità ebraiche in Europa abbia indotto, in queste, la percezione di una tragedia esclusiva, che nelle generazioni venne ad assumere il carattere di un’eccezionalità, la forma di uno svincolo dal riconoscimento delle regole che fondano i rapporti internazionali. Torniamo, in conclusione, alla domanda con cui abbiamo aperto. L’ebraismo potrebbe venire identificato nel sionismo solo in termini di pura espressione etnico-razziale. Ma l’ebraismo ha a che vedere con una espressione del genere?

Va detto che i presupposti di questa condizione sono già presenti nella legislazione israeliana. La cosiddetta “legge del ritorno”, votata nel luglio 1950, riconosce a ogni persona di discendenza ebraica il diritto a entrare nel territorio di Israele per potervisi stabilire in via permanente. Questo privilegio è stato poi esteso anche a figli, nipoti, sposi di una persona di etnia ebraica (salva la circostanza che costui abbia abbandonato la religione ebraica per un altro credo). Il criterio adottato per il riconoscimento dell’ebraicità è quello della discendenza in linea matriarcale (nascita da madre ebrea) o della conversione all’ebraismo e della non professione di altra religione.


Rappresentanza politica e non religiosa

Nella “Legge Fondamentale: Israele Stato-Nazione del popolo ebraico” del 2018 – approvata di stretta misura – si dichiara che “lo Stato di Israele è lo Stato nazione del popolo ebraico, in cui esso realizza il proprio diritto naturale, culturale, religioso e storico all’autodeterminazione”. E, ulteriormente, si precisa che “l’esercizio del diritto all’autodeterminazione nazionale nello Stato di Israele è unicamente di spettanza del popolo ebraico”.

È lampante dunque l’esclusione di ogni riferimento al diritto territoriale della popolazione arabo-islamica (previsto dal piano originario di spartizione della Palestina nei termini del 42,8%) specialmente se si tiene conto che, inversamente, questo significa che il diritto di immigrazione ebraica nel territorio palestinese è illimitato perché tutti gli ebrei della terra ne sarebbero virtualmente compresi.

Si affaccia di conseguenza l’ipotesi, fattasi sensibile dal 2023, di una radicale pulizia etnica, sostenuta, per effetto della suddetta definizione in termini etnico-razziali dell’ebraismo, dall’incriminazione di antisemitismo rivolta a quanti ne contestino gli effetti disumani.

La questione allora si sposta nell’ambito delle comunità ebraiche presenti nel resto del mondo, a cominciare dall’Europa. Fino a che punto le autorità morali dell’ebraismo possono tollerare questa pretesa rappresentanza del proprio destino, tenendo anche conto che non sono di fronte a una rappresentanza religiosa (come, per capirci, è quella del Vaticano per i cattolici), bensì esclusivamente politica?

La questione è molto seria, perché così investe un tipo di compromissione e di responsabilità delle comunità stesse, esposte ai contraccolpi del fanatismo cieco. Difficile altrimenti spiegare l’interminabile conteggio delle risoluzioni di critica e condanna rivolte ad Israele da parte delle istituzioni sorte nel dopoguerra a tutela dei diritti umani.

In un quadro di natura piuttosto ideologica che giuridica la distinzione tra ebraismo e sionismo in questo modo sembra svaporare: benché s’intenda bene che solo il secondo, lo Stato con i suoi poteri, può dirsi responsabile della continua oppressione della popolazione palestinese.

Si calcola che la popolazione ebraica nel mondo oggi ammonti a poco meno di 18 milioni di persone. Di queste, 7 milioni abitano lo Stato di Israele (46%). Ma un’obiezione di coscienza ebraica, laica o religiosa, intellettuale o popolare, esiste anche nello Stato d’Israele, benché forse rappresenti una minoranza esigua. 

La pretesa di rappresentare l’ebraismo, da parte del sionismo, non solo allora si traduce in un’istanza ideologica che, a mio avviso, mortifica sia l’etica che la religione, ma minaccia di allargare la conflittualità al di fuori dei confini di Israele, presso altre latitudini del mondo. Come è successo a Sidney.

 

                                                                                             

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