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Donne e violenza: a proposito della sentenza di Torino

di Aida dell'Oglio


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Che un marito, offeso amareggiato, sconvolto dal fatto che la moglie, dopo vent'anni di matrimonio, abbia osato ribellarsi all'inferno di una violenza quotidiana, fatta di insulti, di botte, di umiliazioni fisiche e psicologiche, davanti ai figli, reagisca aggredendo in modo, se possibile ancora più violento, riducendo in pezzi il volto di quella donna, non si giustifica in alcun modo ma è, purtroppo nella realtà dei fatti. La dice lunga che gli stessi figli si siano costituiti parte civile nei confronti di tanto padre, sul fatto che essi stessi, nel corso di quei vent'anni, avranno dovuto subire le reazioni violente e sconsiderate di questo genere di persona.

Quello che lascia sconvolti tanti di noi è che vi siano ancora oggi, nel 2025, giudici che cerchino e, a loro modo trovino, argomentazioni che giustifichino tale sequela di vessazioni, sfociata nell'aggressione gravissima alla moglie, su cui non mi dilungo perché è stata ampiamente descritta dai media.

Ho abbastanza anni ed esperienza della vita per ricordare quanto avveniva negli anni Sessanta, e oltre, dello scorso secolo, anche dopo che, nel 1981, venne abolito per legge il “Delitto d'onore”, sopravvissuto perfino, all'introduzione del divorzio, nel 1970, e alla Riforma del Diritto di famiglia, nel 1975.

Non era bastata la lotta condotta, nel 1960, da Franca Viola, che, sequestrata e violentata dal suo fidanzato, aveva rifiutato “il matrimonio riparatore” e aveva fatto condannare l'autore dello stupro. Nel corso di quegli anni ci furono giudici che, in una serie di episodi di violenza, ritennero la vittima, la donna, responsabile del fatto: l'abbigliamento provocatorio, il luogo e l'ora in cui il fatto era avvenuto, la volontà della vittima di “consentire” alla violenza. 

Ancora. Fatti molto più recenti, che hanno avuto protagonisti figli di personaggi famosi, ci hanno rimandato dichiarazione di genitori che pur in chiave di legittima difesa, tentano di addossare le responsabilità principali proprio alla vittima, come se fosse stata consenziente.

Ma che vi siano dei giudici che si esprimano come hanno fatto quelli di Torino, nel caso in oggetto, pone molti dubbi e molti interrogativi, inevitabilmente per l'eco suscitata dalla sentenza, sulle qualità morali e sulla maturità umana degli stessi. È un dato di fatto che vi siano, nella nostra società persone che giudicano la donna poco più che un oggetto respirante. Né  si può negare che tale mentalità venga alimentata da tutta una serie di situazioni.

È supinamente accettato che, quando un'impresa versa in situazioni difficili, le prime a farne le spese siano le donne, che perdono l'occupazione. Accade ancora che, all'atto dell'assunzione venga chiesto alle ragazze se siano incinte e alle signore sposate, se “per caso” abbiano in programma di fare dei figli.

Al di là della contraddizione per cui la stessa società che lamenta la diminuzione delle nascite, possa accettare che vengano posti in atto questi meccanismi, l'aspetto più grave è lo svilimento del ruolo e della presenza delle donne nella società, perché, automaticamente, pone la figura femminile in una posizione di inferiorità  rispetto all'uomo.

Di tutto questo siamo a conoscenza perché le cronache quotidiane ne parlano. Trovo molto grave, però, che questo tipo di mentalità appartenga anche a persone che, per l'importanza della funzione che svolgono nei Tribunali d'Italia, nella fattispecie dovendo giudicare su fatti di violenza contro le donne così eclatanti, esercitano una grande influenza sulla società ed in particolar modo sui giovani. In effetti, la sentenza ha già suscitato molta indignazione e persino l'intervento della Procura della Repubblica, che ha impugnato la sentenza.

In qualunque modo infatti la si legga, la sentenza tende ad alleggerire fortemente la responsabilità di questo marito che si sarebbe sentito oltraggiato dalle reazioni e soprattutto dalla decisione della donna di abbandonarlo. Mi sembra pretestuoso minimizzare l'entità del danno inferto al volto della donna. Venti placche di titanio, che esprimono da sole la brutalità della violenza esercitata, per riassestare in qualche modo il volto  di questa donna, non sono sembrati troppi ai giudici, che anzi suggeriscono un suo atteggiamento venale, in quanto avrebbe chiesto un risarcimento di centomila euro.  

Tutta questa vicenda io ritengo che imponga una riflessione sul ruolo dei giudici e sulla loro preparazione non solo professionale, ma anche umana nel senso più lato e profondo.

Tutti i giorni, di fronte alle violenze che individui di sesso maschile operano nei confronti delle donne, che si tratti di stupri di estranei o di violenze attuate all'interno delle mura domestiche, da parte di famigliari, che arrivano spesso fino all'assassinio, gridiamo alla necessità di educare i giovani, fin dai primi anni di vita, al rispetto dell'essere umano. Ma che tipo di esempio hanno immaginato di offrire quei magistrati del Tribunale di Torino, che qualche giorno fa hanno invocato una serie di attenuanti per quell'uomo che, dopo le innumerevoli e quotidiane violenze nei confronti della moglie, è arrivato a devastarle il viso e a procurarle grave offesa ad un occhio?

Hanno considerato quei magistrati la devastazione psicologica di una persona i cui tratti del volto sono stati inevitabilmente stravolti, nonostante la grandissima abilità dei chirurghi che hanno dovuto utilizzare venti placche di titanio? Potrà ancora quella donna riconoscere in quei tratti irrigiditi il suo volto?

Si sostiene che quell'uomo era sconvolto dall'abbandono (dopo venti anni di sevizie, inferte) della moglie, che aveva chiesto il divorzio. E arrabbiato. Certo, molto arrabbiato, perché la vittima, che lui considerava una nullità, ha osato ribellarsi, infine. Bisogna perciò comprendere il suo sfogo bestiale e tenerlo fuori dalle patrie galere.

E a quella moglie, a cui lo specchio rimanda un'immagine nella quale lei fatica a riconoscersi, alla quale è stata per sempre rubata l'identità, nessuna considerazione?

È questo che dobbiamo continuare ad insegnare alle giovani generazioni? Penso che occorra una profonda riflessione sulla necessità di un processo educativo che coinvolga sì le giovani generazioni, ma anche quella parte della società “adulta” che, per i più svariati motivi, culturali, ambientali, psichici, rimane ancorata ai peggiori modelli della vecchia società.

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