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Il voto del 26 maggio: le analisi di Federico Dolce e Michele Ciruzzi

Aggiornamento: 27 dic 2022


Promosso dall’associazione “La Porta di Vetro”, giovedì 20 giugno, alle 18, si è svolto presso la sede dell’associazione Argo un incontro finalizzato ad analizzare i risultati del voto europeo del 26 maggio scorso.

A quasi un mese di distanza dalla tornata per il rinnovo del Parlamento europeo, Federico Dolce, Michele Ciruzzi e Marco Gonella (da sinistra a destra nella foto) hanno introdotto la discussione sugli esiti elettorali e gli scenari polici futuri in ambito europeo. Di seguito, riportiamo le sintesi degli interventi di Michele Ciruzzi e Federico Dolce.


Federico Dolce

Queste sono state, a memoria mia, le elezioni che più possono assomigliare a quelle che in America sarebbero le elezioni di mid-term, di metà mandato. Un’elezione scarsamente carica di contenuti strettamente legati al motivo dell’elezione stessa: sia che le elezioni fossero regionali o europee di temi europei si è sentito parlare pochissimo. E’ stata principalmente una resa dei conti interna tra le due principali componenti del governo e un test di quella che doveva essere la nuova la nuova segreteria del principale partito d’opposizione. In questo senso, i tre grandi poli hanno tentato di comportarsi nella maniera più classica possibile, quella che i sociologi politici tentano di suggerire sempre: si pensa prima a tenere i propri elettori e poi ad allargare al consenso. I flussi di voto ci dicono che a qualcuno questo è riuscito bene, a qualcuno è riuscito o meno bene, a qualcuno non è proprio riuscito. Si sa a chi è riuscito estremamente bene, naturalmente: la Lega nord.

Il partito di Salvini ha tenuto i voti non soltanto in termini percentuali, ma anche in termini assoluti – che, in una tornata elettorale che ha una flessione di affluenza, è comunque un dato oggettivamente molto molto forte; è diventato un player anche in zone dove non lo era come al sud, ed è diventato egemone al nord andando a erodere non soltanto al principale alleato naturale, ma anche al principale alleato di governo (in questo caso, sono due soggetti distinti).

Il secondo soggetto è quello di opposizione, il PD, che ha tenuto sì, ma “avere tenuto” non è un risultato positivo per due motivi: primo, perché l’opposizione è il mestiere più facile in politica; secondo perché avevano scientemente calcolato le tempistiche per fare il congresso a traino della campagna elettorale: il congresso doveva servire ad essere – come fanno appunto le primarie americane – proprio prima del voto di modo che diventino un unico grande treno di attenzione mediatica. Questo avrebbe dovuto essere un traino in qualche modo e, se c’è stato, è stato davvero debole: si parla di flessione di consensi in termini assoluti e si parla di gravi sconfitte in particolare in alcune elezioni locali dove invece in genere la sinistra ottiene le performance migliori. Proprio nei giorni scorsi abbiamo osservato che Ferrara dopo 70 anni ha capitolato, ha detto un esponente leghista. Il coraggio per vincere la paura anche internamente al partito, su come si possa vincere questa paura candidando anche persone e personalità che esprimano una certa idea, a me ha fatto venire in mente il partito democratico statunitense e come – quando vince, ma anche quando perde – esso lavori per rinnovarsi, per porre una nuova visione usando le proprie energie nei suoi feudi per candidare, portare avanti le visioni di futuro e di Paese, delle personalità più “hardcore”. Bernie Sanders, Alexandria Ocasio-Cortez, Eric Swalwell, Kirsten Gillibrand sono tutte personalità che parlano in maniera forte e netta alla propria base sul futuro del Paese e del partito. Per rinnovarsi il partito coltiva nel luogo dove è più sicuro il proprio futuro che consiste in questi atti di coraggio. Il Partito Democratico italiano invece ha fatto le scelte diverse perché nei suoi feudi (Toscana e Emilia Romagna) ha coltivato un’altra idea di paese, ha coltivato un’altra area di candidati e ha portato avanti un’altra idea degli uomini forti: lì hanno eletto personalità di tutto rispetto ma che hanno delle idee molto diverse da una parte della base storicamente maggioritaria, perché Nardella, Renzi e Casini non corrispondono certo al profilo tipico di quello che era considerato il militante del Partito Democratico e questo è andato poi a modificare una cosa molto importante: l’idea di Paese. Adesso, se noi dobbiamo identificare il Partito Democratico come quello che ha tenuto o come quello che deve resistere alla grande ondata fascista-populista, diciamo qualcosa di importante ma senza un’idea di futuro. Resistere è un sentimento molto potente e fa appello a una motivazione molto forte, ma resistere per cosa? Qual è la proposta che identifica il PD? Quale è l’equivalente del “prima gli italiani” o l’equivalente del reddito di cittadinanza del partito democratico? Una buona gestione non è ampiamente sufficiente in un periodo di crisi: se c’è un dato delle regionali piemontesi che può meglio descrivere la caduta di Chiamparino è l’astensione sulla provincia di Torino a riprova di ciò. Questa, secondo me, deve essere la vera ricerca del PD. Renzi – con tutti i difetti che gli si potevano imputare – era comunque riuscito a mettere in piedi un discorso coerente, un discorso che riusciva a stabilire almeno nel breve periodo una connessione emozionale senza la quale non si porta al voto la gente.

Non bastano tutti i dati e tutte le buone speranze di questa, se il PD non ritrova quel dato – quello sì: identitario. Io ero un giovane data miner quando ho fatto parte dalla squadra di lavoro di quello che poi sarebbe diventato il responsabile economico della segreteria di Renzi, Filippo Taddei, e ho potuto lavorare al fianco di professori del livello di Cella, Garibaldi e Castellani: posso garantire che il reddito di cittadinanza era allo studio del Partito Democratico dal 2011 perché allora almeno il partito non aveva paura di cercare nuove soluzioni per il futuro. Il governo reggerà ancora diversi mesi, vedremo quanto Lega e Movimento 5 Stelle riusciranno a mettere in pratica i propri cavalli di battaglia, ma una volta che si andrà al voto, il PD deve presentarsi con una nuova visione di paese che non sia semplicemente “visto che disastri hanno combinato gli altri?”. Non soltanto uno slogan, naturalmente, ma una visione coerente e onnicomprensiva della società. Una volta l’avrebbero chiamata ideologia. Adesso siamo in un’era post-ideologica ma comunque un progetto coerente di Paese è necessario perché un tessuto sociale sfilacciato é sotto gli occhi di tutti e le conseguenze le possiamo testimoniare tutti quanti. Quelle degli avversari sono due risposte che, per quanto soggettivamente esecrabili, sono sul tavolo. Prima di parlare di resistenza antifascista, di resistenza anti sovranista, anti populista bisogna trovare una contro proposta in positivo.

Ho la fortuna di conoscere quasi tutti i presenti, di trenta che siamo so per certo che tutti a vario titolo si riferiscono alla stessa parte politica, anche se forse solo per carattere residuale, per distanza dagli altri due poli: se posso dirmi certo di una cosa è che ognuno di voi ha in mente una sinistra diversa dalle altre. C’è però la grande occasione che deriva dalle grandi sconfitte e, visto che si è tanto parlato di coraggio, non c’è coraggio più forte di quello di chi non ha più nulla da perdere. Se prima uno dei grandi temi che ha dilaniato la sinistra era l’idealismo contro il governismo, ora il governismo non ha più ragion d’essere: non c’è più nulla da governare. Forse questo è il momento dl coraggio. Forse questo è il momento per osare, di guardarsi in faccia e capire che non è vero che si è comunicato male, non è vero che il popolo bue si è fatto ingannare dalle fake news: è che la lettura del paese era sbagliata e basta. Ci sono oramai degli archetipi di Paese che non esistono più e si portano dietro certi luoghi comuni e letture scontate che ancora vivono con forza nelle politiche e nelle fotografie del paese che il Partito Democratico ha portato avanti per anni.

Il contatto che si è venuto a perdere tra il PD e le “sue” periferie non sta tanto nelle singole politiche o nelle singole parole d’ordine, ma nella lettura complessiva del momento stoico e della società odierna che trova più aderenza con la parte di società che è rimasta più fedele a sé stessa (quella più benestante) e grazie alla quale performa bene nei centri storici e non negli altri quartieri. Se si riuscisse ad avere il tanto invocato coraggio e ad unirlo con un minimo di umiltà necessario ad abbandonare il paternalismo e prosopopea di chi si auto incorona “testa pensante del Paese che combatte i mostri populisti”, a trovare i temi da portare avanti, a capire che c’è un’accademia e una scena internazionale che sta guardando oltre gli schieramenti classici e sta tornando a produrre delle proposte attraenti, interessanti e soprattutto funzionali. Un esempio mostruosamente importante è quello del municipalismo, un settore saccheggiato da vent’anni di governi di ogni schieramento in Italia, sta trovando all’estero la giusta fama e importanza in quanto governo di ecosistemi sempre più popolosi ed importanti, e governo in grado di gestire servizi e beni che impattano sull’80% della vita dei propri cittadini (trasporti, istruzione, sanità diffusa, spazi pubblici, sicurezza) e quindi torna a ridefinire in positivo la forma del pubblico e del governo. Ci sono ancora altri esempi ma il punto è questo: ci sono margini per trovare nuove proposte, nuove idee, una nuova idea di società da proporre e spingere per ricostruire quel tessuto che si è sfaldato spianando la strada agli avversari. Ma non c’è molto tempo per farlo, e qui vengo al secondo punto. Presto arriverà l’occasione (non si sa più a che numero di ultime occasioni siamo giunti) per poter trovare questo coraggio, presto si tornerà a confrontarsi col voto perché il mito dei grandi comunicatori avversari non sta in piedi. E’ statisticamente molto difficile che Berlusconi, Renzi, Casaleggio, Salvini siano sempre tutti geni della comunicazione. Non basta vincere per essere geni, ogni tanto basta essere al posto giusto al momento giusto, ma quando il consenso balla e non dura allora capisci che il fuoco è di paglia. Presto quindi arriverà un’occasione, arrivarci col coraggio di chi non ha niente da perdere e l’umiltà di chi è andato a studiarsi delle nuove proposte senza più tabu sarà a mio avviso l’unica strada per avere ancora un ruolo nella politica italiana.

Michele Ciruzzi

Quello che cercherò di fare è un’analisi che cerchi di andare oltre le narrazioni più semplici che sono già state fatte su queste elezioni.

Il primo fatto di cui tenere conto è un’affluenza molto bassa rispetto a tutte le ultime elezioni europee e nazionali, quindi qualunque conclusione va calmierata su ciò: c’è una fetta non piccola di elettorato che ha votato fino a un passato molto prossimo ma che non lo ha fatto alle ultime elezioni. Sono elettori che presumibilmente sono disposti a votare, che oggi non si identificano in nessuna proposta politica ma che potrebbero essere di nuovo mobilitati da qualcosa di nuovo. Inoltre, le elezioni europee sono storicamente poco sentite e hanno visto negli anni exploit più o meno inaspettati che però non hanno trovato conferma nelle elezioni successive.

Considerato ciò possiamo comunque dire che chi ne esce molto rafforzata è la Lega che aumenta i voti ovunque, soprattutto a spese del centrodestra classico, con Forza Italia che appare sempre più ai margini del dibattito politico, e dei 5 Stelle. I 5 Stelle invece sono in forte calo, soprattutto al Centro-Nord, perdendo in totale oltre 5 milioni di voti dalle politiche e un milione rispetto alle europee precedenti, presumibilmente a vantaggio per lo più della Lega. Quello che osserviamo è una spaccatura geografica dell’attuale maggioranza di governo: al Sud, i 5 Stelle rimangono il primo partito con la Lega in crescita, mentre al Centro-Nord è la Lega il primo partito capitalizzando anche le difficoltà degli alleati.

All’opposizione il Partito Democratico conferma bene o male i risultati di un anno fa con una perdita dei voti trascurabile, confermandosi secondo partito grazie al calo diffuso dei 5 Stelle, senza riuscire a capitalizzare l’anno passato all’opposizione. A destra cresce Fratelli d’Italia mentre non si arresta la caduta libera di Forza Italia. A sinistra invece il complessivo di Europa Verde e de La Sinistra si colloca in linea con i voti (assoluti) presi dai partiti della stessa area negli ultimi 15 anni, circa un milione, senza riuscire ad ampliare la base elettorale nonostante la caratterizzazione del messaggio politico su due diversi filoni. In generale i partiti verdi non hanno avuto dei buoni risultati al di fuori del nord Europa, facendo fatica ad affermarsi nelle aree non ricche. I buoni risultati dei Verdi in Europa sono pressoché confinati alla Scandinavia, alla ex-Germania Ovest, all’area di Parigi e ad alcune zone ricche dell’Inghilterra: in qualche modo cioè si orientano sul voto Verde, ovvero mettono al primo posto per importanza la questione ambientale, solo gli elettori di aree senza grossi problemi economici. In altre parole può pensare all’ambiente solo chi non deve preoccuparsi di arrivare a fine mese.

In sintesi queste elezioni ci suggeriscono che ci sono solo tre partiti che potranno dire la loro nel futuro prossimo: la Lega in forte ascesa che ha trovato una sua dimensione nazionale, il Movimento 5 Stelle messo in difficoltà dell’alleanza di governo e sempre più schiacciato al Sud e il Partito Democratico che si appoggia a una base elettorale solida che sembra però difficile da erodere o incrementare. Tra i partiti minori invece l’unico che sembra in grado di incrementare i propri consensi e provare a fare la sua partita, come eventuale alleato di governo, è Fratelli d’Italia. A sinistra, invece, niente.


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