Per passione, non solo musica e parole...
- a cura del Baccelliere
- 13 mag
- Tempo di lettura: 2 min
Aggiornamento: 20 mag
Alle origini del country in tutte le sue forme
a cura del Baccelliere

Alle volte si può arrivare alle cose attraverso percorsi a ritroso. Per molti il country è stato uno di questi. Nei primi anni ‘70, fermenti politici e culturali attraversarono il mondo. Il rock, dopo i raduni oceanici e i dischi e ai film a questi dedicati, prese la forma di linguaggio universale. Tra i protagonisti spicca un quartetto, attivo in quanto tale per un breve periodo, ma capace di toccare il cuore degli appassionati. Stiamo parlando di Crosby, Stills, Nash & Young. CSN&Y andarono a Woodstock, produssero un disco in studio nel 1970 (Déjà vu) e un doppio dal vivo che recava i segni dell’addio fin dal titolo, Four way street. Poi ognuno, o quasi, per sé.
Grazie a loro in Europa e in Italia prese piede il fenomeno del country-rock. Suonavano grandi chitarre acustiche e taglienti chitarre elettriche. Portavano giacche sfrangiate e soprattutto avevano rinverdito la vocazione alle armonie vocali che era stata propria dei Beatles [1].
Un po’ impropriamente il pubblico europeo tendeva ad identificare questa musica con il country. In realtà quello che intendiamo con country music fa riferimento al patrimonio folkloristico delle aree rurali del sud degli Stati Uniti.
Un’interpretazione settoriale potrebbe suggerire che si tratti di musica esclusivamente bianca. In origine lo è. Come spesso però accade, la realtà è assai più sfaccettata. I bianchi portarono i propri strumenti e le proprie tradizioni musicali dall’Europa. Non poterono fare a meno però di subire l’influenza dei neri. Schiavi-servitori che agirono sulla cultura musicale dei propri padroni. La fusione fra la cultura anglo-celtica delle isole britanniche e quella dell’Africa occidentale, da cui proveniva la maggior parte degli schiavi, fu favorita dalla sostanziale mancanza di una musica “colta”, che in terra americana fece la propria apparizione solo più avanti.
L’oralità dei bianchi fu influenzata da quella dei neri. Il ritmo, le armonizzazioni ispirate al gospel, per non parlare del modo di stare di fronte al pubblico, devono molto a quella parte d’Africa trapiantata in America. Nacquero hillbilly e bluegrass.
Come spesso accade, anche in questo caso, fortunatamente è più facile trovare commistioni che purezza.
Il brano che vorremmo proporre al termine di questo breve excursus è Duelin’ banjos [2]. Il pezzo è diventato famoso nella colonna sonora di Un tranquillo weekend di paura,[3] suonato alla chitarra e al banjo da Steve Mandell e Eric Weissberg. Originariamente era stato inciso negli anni ‘50 da Don Reno e Arthur Guitar Boogie Smith. La forma è quella di un duello all’ultima nota, in cui il primo strumento esegue la frase che il secondo dovrà ripetere. Nel film il brano caratterizza una scena suggestiva e inquietante, in cui la chitarra di uno dei protagonisti dialoga con il banjo di uno strano ragazzo. Il presagio di tragici avvenimenti. Ma questa è un’altra storia.
Note
[1] In Chicago, quasi un inno, https://youtu.be/UICcui02BtM?si=XbA7MiqFUGyMSfTW cantavano “we can change the world”
[3]Titolo originale Deliverance, diretto nel 1972 da John Boorman, tratto dal romanzo Dove porta il fiume di James Dickey. Con Jon Voight, Burt Reynolds, Ned Beatty e il musicista Ronny Cox nei ruoli principali, nel 1973 l'opera fu candidata a tre premi Oscar, tra cui quello al miglior film, e a vari Golden Globe.
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