Alla ricerca di partiti veri per salvare la politica, quella vera
- Giancarlo Rapetti

- 14 set
- Tempo di lettura: 4 min
di Giancarlo Rapetti

Un lettore della Porta di Vetro, a commento di un articolo sulle problematiche della legge elettorale, osservava che nessun politico parla mai dell’articolo 49 della Costituzione.[1] Osservazione pertinente, ma il fatto non può suscitare meraviglia: i politici preferiscono avere la massima libertà di agire, senza regole da seguire. Eppure, al contrario, è di fondamentale importanza che i partiti debbano rispettare norme di funzionamento, nell’interesse dei cittadini. Non tutti infatti possono o vogliono dedicarsi alla politica.
La politica è faticosa e assorbe completamente chi la pratica operativamente: da un lato richiede spirito di servizio, per studiare i problemi e cercarne una soluzione, dall’altro necessita di uno sforzo sistematico per la ricerca del consenso. Pochi hanno l’intelligenza e l’energia per sostenere entrambi gli impegni, molti si dedicano solo al secondo, ma anche così si tratta pur sempre di una minoranza.
Oltre che faticosa, la politica è anche difficile: l’amministrazione dello Stato nel tempo è diventata sempre più complessa, e la complessità cresce di pari passo con lo sviluppo della società, dell’economia, della scienza e delle tecnologie. Come il giudice è “il perito dei periti”, così il politico è “il tecnico dei tecnici”.
Di fatto l’occuparsi di politica è demandato dai molti ai pochi. Per questo motivo occorre che ci siano regole chiare e precise per l’esercizio concreto dell’impegno politico. Tradotto, occorre attuare l’art. 49 della Costituzione, il quale recita: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Norma programmatica, che nessuno si è mai preoccupato di concretizzare, stabilendo per legge che cosa si intenda per “associarsi liberamente” e “concorrere con metodo democratico”. Il risultato è che abbiamo visto qualunque cosa: partiti padronali, partiti personali, partiti liquidi. I partiti hanno perso credibilità (e iscritti), i loro statuti sono spesso à la carte, i congressi delle finzioni, le cosiddette primarie delle farse. Naturalmente non sempre, ma la percezione è quella, e spesso anche la realtà.
È curioso che in una cultura giuridica come quella italiana (e anche europea) che tende a normare qualunque cosa, ci si sia dimenticati totalmente dell’argomento. Errore tragico, perché senza i partiti non c’è democrazia. Norberto Bobbio diceva “i partiti sono più che utili, sono necessari”. Oggi, che, come si diceva, la politica è faticosa e non tutti se la sentono di impegnarsi, sono ancora più importanti, per evitare che la politica stessa diventi appannaggio di bande personali. E non ci si deve preoccupare che siano troppi: l’alternativa ai troppi partiti è il partito unico, quello di Stalin, Hitler, Mussolini e di tanti altri dittatori noti o meno noti.
Perché serve una legge applicativa dell’art. 49? Perché i partiti devono funzionare secondo regole certe e coerenti con il dettato costituzionale. Al momento esistono norme per quanto riguarda il finanziamento pubblico e le questioni collegate, ma che lasciano in un limbo la definizione della struttura dei partiti. Ci deve essere uno statuto tipo, definito per legge, che regoli il funzionamento interno: i congressi, le modalità di elezione degli organi dirigenti, il tesseramento, il pagamento delle quote associative. Ci deve essere un organo terzo di controllo del rispetto delle norme interne. Deve essere stabilito quali sono gli organi dirigenti che, in relazione alle diverse elezioni, sono competenti a deliberare le candidature. Varrebbe la pena di prendere in considerazione il passaggio da “associazioni non riconosciute” a soggetti con personalità giuridica: sarebbe il partito e non il capo pro-tempore ad essere titolare di nome, simbolo, patrimonio, evitando vicende grottesche e contenziosi indefinibili a cui ogni tanto si assiste. Non è semplice normare tutto ciò, ma il fatto che non sia semplice è la prova del fatto che è necessario.
Qualche esempio concreto dei principi prima enunciati.
Il registro degli iscritti deve essere pubblico, nel senso di soggetto a controllo pubblico: gli iscritti devono essere certi, con data certa, con pagamento della quota associativa in modo tracciabile e da parte dell’iscritto stesso, non di terzi. La quota associativa non deve essere simbolica, ma, senza eccedere, tale da scoraggiare, a causa del costo elevato dell’operazione, "l’investimento" in pacchetti di tessere da parte di qualche corsaro. Per tutelare i territori, le candidature devono essere deliberate dagli organi periferici immediatamente superiori al collegio di elezione su proposta dell’organo di pari livello dello stesso collegio di elezione, lasciando alla direzione nazionale il controllo di legittimità. Per rendere meglio l’idea: i candidati di un collegio provinciale sono deliberati dal Direttivo regionale su proposta del Direttivo provinciale. La Direzione nazionale può escludere un candidato per motivate ragioni di indegnità o non onorabilità, ma non può indicare un nuovo candidato. Per individuarlo si ripercorre la trafila precedente. Un regola di questo tipo evita i candidati “paracadutati”, favorisce la vicinanza agli elettori del territorio rappresentato e promuove il ricambio senza bisogno di vincoli arbitrari sul numero dei mandati.
Si può discutere se la scelta dei candidati possa essere demandata alle primarie, cioè a persone non iscritte al partito ma potenziali elettori dello stesso. Nel caso si ritenga di optare per la scelta affermativa, deve essere una regola contenuta, come ipotesi, nello statuto tipo e basata su di un principio minimo: l’elettore che sceglie di votare alle primarie deve registrare la propria intenzione in un registro pubblico entro un tempo predefinito, in modo tale che il giorno della votazione esista un elenco ufficiale e verificabile degli elettori. E, come accade oggi per le firme di presentazione delle candidature, per la stessa elezione non ci si può registrare per più partiti. Possiamo fermarci qui. Non manca materia per chi volesse provare a scrivere un articolato.
Non ci si può illudere che una legge sul funzionamento dei partiti risolva i problemi della credibilità ed efficacia delle istituzioni, ma aiuterebbe. Superare la crisi della politica non è per niente facile e solo un profondo sussulto delle società democratiche, una vera rivoluzione culturale potrà produrre rimedi duraturi. Sussulto necessario, perché di questo male oscuro la democrazia può morire: “la libertà non è uno spazio libero, la libertà è partecipazione”, cantava Giorgio Gaber già molti anni fa. Ma non va neppure sottovalutata l’importanza di avere partiti vivi e funzionanti. Sono il luogo del confronto, dell’elaborazione progettuale e della prima selezione del personale politico. Non è poco e se ne sente la mancanza.
Note













































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