Alla ricerca di nuovi modelli di partito: un’intelligenza collettiva
di Sergio Scamuzzi

Molti rilevano la palese incapacità degli attuali modelli di partito in molti paesi occidentali, e non solo in Italia, di sollevare la partecipazione elettorale da imbarazzanti quote al di sotto della metà degli aventi diritto; l’efficacia di alcune leadership nello spostare a proprio favore le piccole rimanenti quote di votanti più volatili che però fanno la differenza nella competizione, anche a prezzo di una radicalizzazione del messaggio e l’orientamento a questi della comunicazione politica; decisioni politiche effettive che appaiono dettate dai mercati, o dalle esigenze contingenti di questa comunicazione. E manifestano perciò una certa nostalgia per modelli di partito diversi, e persino l’esigenza di essi: l’esigenza di partiti meno orientati sulla sola funzione elettorale, ossia di gestione delle campagne e di selezione delle candidature elettive e al sistema delle spoglie, e invece più attivi su quella di integrazione sociale, ossia mediante offerta di partecipazione, simboli, formazione, e attivare una base sociale di consenso durevole, e su quella di formulazione e perseguimento delle politiche, per limitarci alle tre funzioni canoniche.
Quale alternativa alle strutture di massa?
Dunque, partiti più vicini allo storico partito di massa, modello però non più ripetibile in quanto tale, come molti degli stessi suoi protagonisti ci confermano (anche nelle recenti ricostruzioni di memoria: vedi ad esempio su youtube il ciclo ‘Partito comunità’ dell’Istituto Gramsci di Torino) e non solo le scienze politiche e sociali. Una soluzione è il populismo, dimostratasi però assai fragile a sinistra e antisistema a destra. Uno dei suoi orientamenti di fondo, l’antipolitica, ha contribuito al non voto come alternativa anche per gli stessi votanti per formazioni populiste. Non mancano analisi del non voto e della crisi dei partiti, ma mancano proposte. Si potrebbero però cercare dei motivi di riflessione in tale direzione.
Un partito strettamente elettorale dipende fortemente dai suoi finanziatori, decisivo quindi se e quanto pubblici o privati e quali, e dai propri candidati eletti nelle diverse cariche, in quanto cofinanziatori e in quanto titolari almeno simbolici di politiche. Ma diventa debitore anche per la provenienza della conoscenza necessaria a elaborarle: debitore di tecnici e tecnocrazie, specie per l’attività legislativa più "seria", below the line. Lo può essere anche di professionisti di grandi media e di social media, gli unici a offrire canali, di alcuni portatori di interesse (o anche clientele) piuttosto che della società civile nel suo insieme, e a offrire target che fanno eco alle posizioni prese di volta in volta sull’attualità, per le politiche più visibili.
Che cosa può riequilibrare questo modello? Non più la ormai in parte mitica base ma secondo una prima tesi invalsa, i movimenti e il mondo associativo. Ma la politica istituzionalizzata è per sua natura permanente e generalista, i movimenti procedono per mobilitazioni, sono portatori di singoli temi specifici, in cui si articolano anche i due più vasti e durevoli rimasti sulla scena, l’ambientalismo e il femminismo. Solo sindacati e associazioni professionali resistono, pur soffrendo anch’essi di crisi simili a quelle dei partiti .
Potrebbero quindi essere integrati in una seconda opzione: cittadini generici e cittadini esperti messi in rete grazie non solo a valori e volontà, cioè come militanti, ma anche alle loro conoscenze ed esperienze: di territori, di ambiti lavorativi e professionali, di esperienze e vissuti concreti. Le tecnologie digitali aiutano parecchio. Molte esperienze di democrazie diretta e di partecipazione, sia pure temporanee e locali, off line e on line, offrono elementi di riflessione, come l’esperienza purtroppo non ripresa delle Agorà democratiche del PD.
L'esigenza di una nuova forma comunicativa
La cronica mancanza di comunicazione dal basso all’alto, nelle organizzazioni pubbliche e private e non solo in politica, può dare grandi risultati, se presa sul serio dall’alto. Bisogna però modificare la logica alto-basso in una logica di rete, tendenzialmente paritaria, che integra saperi di diversa natura e origine. Le politiche, beninteso, affrontano oggi complessità sociali e quindi tecniche elevate, la cui soluzione non è alla portata del senso comune e perfino di esperti non professionalizzati in ambiti specifici, ma l’opinione pubblica è privata di capacità di stabilire l’agenda, che dipende invece dalla ricerca della notizia o di uno schieramento tra politici di professione e partiti, e da informazione non validata. Una rete di partito può contrastare questo vuoto di opinione pubblica con un’attività di conoscenza e di integrazione come quella accennata .
Nel partito elettorale gli amministratori locali e alcuni nazionali ed europei si fanno carico forme limitate di partecipazione e di competenze diffuse per necessità di gestione, alcuni le incorporano nella loro biografia, ma per banali ragioni pratiche la misura è insufficiente al bisogno, che può essere soddisfatto solo da una organizzazione e da persone dedicate. E questa è una ragione di più per evocare come componente di un nuovo modello di partito un finanziamento pubblico della politica adeguato, in controtendenza con l’approccio populista e a favore di una politica che si interessi con continuità di chi non ha risorse economiche e organizzative da gettare nell’agone, per organizzare la partecipazione, ma anche per formulare programmi in cui si inquadrino le politiche. Anche questa ultima attività, appaltata un tempo a uffici appositi o intellettuali organici, si può costruire facendo rete con gli innumerevoli istituti culturali, centri, tecnocrazie, pubbliche e private, nazionali e internazionali (gli esempi spaziano da IPCC, Save the children, Asvis, Forum Disuguaglianzediversità, Ispi a Istat e Banca d’Italia) che producono incessantemente dati e proposte e rendendola sinergica con altre conoscenze ‘interne’, invece di trarne prestiti erratici.
Un mercato di idee senza consumatori
E’ una forma di ‘intelligenza collettiva’ che sarebbe utile, forse più ambiziosa di altre esperienze nate dopo il libro del sociologo francese Pierre Lévy del 1994 con questo titolo. Per ora abbiamo un mercato delle idee senza consumatori in grado di produrne, al massimo qualche opinionista, manca un interlocutore partitico forte di sue competenze e non solo di volontà e agenda. Da questa attività può nascere la necessaria sintesi e l’agenda decisionale con le sue inevitabili priorità, ma col valore aggiunto di una larga condivisione e di una di un partito conoscenza plurisettoriale. La vita associativa comprende anche altre attività, deliberative e comunitarie, necessarie, ma se questa manca si perde una motivazione importante alla partecipazione: sapere di poter contare sui contenuti , sapere che qualcuno pensa a persone come te, e non, magari solo e poco, esprimersi su candidature, schierarsi su posizioni di altri. Se manca, si perdono anche argomenti durevoli per la sua comunicazione politica ed elettorale.
Rimane una questione cruciale: cosa può conferire significato e unitarietà a questa complessità estrema di soggetti, settori della società, orientamenti ed evitarne la frammentarietà? Evocare valori o tavole di valori , rappresentazioni e narrazioni è necessario: non siamo ancora usciti dalla fortissima narrazione neoliberista, e serve un’alternativa. Occorre però darle un ancoraggio materiale e pratico a condizioni sociali largamente diffuse che si vogliono superare con una politica e con delle politiche, come le attuali molteplici forme in cui si può essere vittime di disuguaglianza, sfruttamento, violenza. Non più una classe sociale, forse, ma qualcosa di molto simile, capace di esprimersi anche in soggetti e luoghi.