Alla ricerca della mediazione perduta: la difficile arte del convivere
di Emanuele Davide Ruffino
Il mondo occidentale stenta a individuare una difesa della visione democratica, crogiolandosi nella convinzione che la nostra concezione di civiltà, sancita nella Dichiarazione Universale dei servizi dell’Uomo, non possa essere messa in discussione. In realtà, le atrocità che schiacciano le nostre coscienze, dalle scene di guerra e di violenze ai danni dei civili in Ucraina ai morti per le manifestazioni di protesta contro gli ayatollah in Iran e alle centinaia di micro conflitti che insanguinano più latitudini del mondo, accentuano la domanda su quanto si è disposti a pagare un prezzo individualmente per difendere le nostre convizioni, quando queste escono dai dibattiti politici per confrontarsi con la gestione del quotidiano. La capacità di mediazione è progressivamente scemata, lasciando spazio a situazioni che si vanno ad acuire senza possibilità di ritorni al dialogo e alle stanze di compensazione per le controversie, anche internazionali.
Divagazioni sul clima aziendale
Prima di risolvere i problemi generali, dobbiamo ricreare condizioni di convivenza accettabili, già nei nostri microcosmi. Nell’analisi delle aziende di successo emerge sempre più l’importanza della percezione che, gli attori di un’organizzazione, devono avere dell’ambiente i cui sono inseriti, quale elemento essenziale della funzionalità di una complessione. I vecchi militari parlavano di “spirito di corpo” quale condizione imprescindibile per affrontare situazioni critiche. L'interpretazionee lavalorizzazione dei rapporti che si realizzano diventano quindi elementi essenziali del governo manageriale cui siamo chiamati a prestare sempre più attenzione.
Collocare questi concetti alla Gasprom (nel 2022 gli episodi di morti sospette sono diventati numerosi) o alle truppe russe che arretrano davanti all’esercito ucraino (così come già successe agli americani in Vietnam e nella fase iniziale della guerra in Corea) può apparire quanto mai pleonastico, ma induce e introduce a qualche riflessione sulle modalità di convivenza nel nostro modo di vivere. In primis, su che cosa è che fa funzionare un’organizzazione rimane un grosso interrogativo cui non ci si può sottrarre a nessun livello e in qualsivoglia settore.
Gli eccessivi formalismi, gli accanimenti su aspetti marginali, l’accusare intere categorie (si pensi ai “fannulloni” della Pubblica amministrazione), la ridondanza delle normative che regolano tutti i settori e portano a “comandare” solo chi si dedica a tempo pieno alla loro conoscenza, non accresce la governance del sistema, anzi ne offende ogni tentativo innovativo.
Per esempio, la preoccupazione dei generali russi è maggiormente concentrata nel capire se e quando si sarà rimossi, così come gli oligarchi di Gasprom riivolgono le loro attenzioni a schivare incidenti di qualsiasi natura. mortali. Ma pur in situazioni decisamente meno drammatiche, anche la nostra classe dirigente sembra maggiormente portata a soddisfare le richieste del livello gerarchico superiore o a non incorrere nell’inosservanza di qualche codicillo, lasciando alla funzionalità del sistema uno spazio decisamente residuale, sostenuti dalla convinzione (più o meno esatta) che a contare sarà l'accesso a un bonus o a un finanziamento a fondo perduto (per le aziende pubbliche si può sempre ottenere un ripiano perdite). Con questo approccio diventa poi difficile affrontare la concorrenza; infatti, il sistema Italia perde di competitività e di credibilità imprenditoriale.
Predominano l’episodico e le legislazioni d’emergenza
A certificare la mancanza di un clima propositivo è anche la dinamica dominante ormai da decenni nella produzione, sempre più concentrata sull’episodico che non a fornire una programmazione sistemica dell’evoluzione della società.
L’attenzione al presente, specie nelle fasi preelettorali, impedisce di volgere lo sguardo sul progettare il futuro, con la conseguenza che anziché esprime una preferenza su una visione complessiva, si rimane condizionati dalla circostanza contingente. Bisognerebbe decidere cosa votare prima che inizi la campagna elettorale e non lasciarsi convincere dall’ultimo slogan, dall’ultimo bonus, dall’indiscrezione creata ad hoc, dalla gaffe in cui inciampa un leader, dalla fake new quotidiana, senza valutarne gli effetti che le decisioni prese oggi, produrranno nel lungo periodo.
Più presidenti della Repubblica sono interventi per cercare di smorzare l’abuso al ricorso dei decreti legge che dovrebbero essere atti normativi da assumere in condizioni straordinarie di necessità e urgenza dal Governo (art. 77della Costituzione). Detti atti, aventi forza di Legge, entrano in vigore il giorno successivo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, ma gli effetti prodotti possono essere provvisori, poiché perdono efficacia (c.d. decadenza) se il Parlamento stesso non li converte in legge entro 60 giorni dalla loro pubblicazione. Poi su cosa succede dopo cala il sipario.
Lo stilare una norma con tutti i requisiti ad hoc non risolve di per sé i problemi, come dimostra il continuo ricorso a provvedimenti d’emergenza, anzi alcuni rischiano di risultare già asincronici al momento della loro emanazione. La realtà quotidiana ripropone la questione in termini sempre più dirompenti: se si continua discutere ancora un po’, si rischia di stabilire il price cap su un prodotto come il gas, quando la Russia non ci darà più il gas (o l'inverso, se mettiamo il price cap, la Russia ci darà ancora il gas?). Rischiamo che per colpire gli speculatori, si riducano le possibilità di crescita economica, mentre ci si arrovella sul deficit, tralasciando la semplice verità che il problema è come pagare quel deficit.
Sicuramente il problema del presente appare sempre come il dominante, ma sarebbe opportuno volgere lo sguardo anche su che cosa può produrre il modo di risolverlo, senza esasperare il particolare, ma cercando una ricomposizione razionale.
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