Abbandoniamo il leaderismo per dare linfa alla classe politica
- Giancarlo Rapetti
- 17 ore fa
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di Giancarlo Rapetti

In una lettera al Direttore dell’Avvenire di qualche giorno fa, Ruggiero Delvecchio faceva ineccepibili considerazioni sui meccanismi di selezione (al ribasso) della classe politica, sintetizzandola in questa chiusa, amara ed efficace: “Il problema non è che non abbiamo un De Gasperi. E’ che non lo voteremmo”.
La questione, prima di arrendersi definitivamente, può essere scomposta in due aspetti.
Il primo potrebbe essere definito ontologico, o antropologico: l’uomo non è solo ragione, è anche istinto e sentimento. Anzi, le cose più forti della vita, l’amore e l’odio, prescindono dal razionale. Pensare di tenere fuori la politica da questo meccanismo umano potrebbe essere illusorio e velleitario. Lo stesso ritorno alla natura, rilanciato spesso da menti sottili per contrastare, o mitigare, gli aspetti negativi della industrializzazione e dello sviluppo, finisce per picconare la razionalità delle scelte. Infatti i prodotti più alti del pensiero umano, la scienza e la democrazia, non sono naturali, sono costruzioni culturali realizzate domando e correggendo la natura.
La natura allo stato puro è disordinata, anarchica; in natura sopravvive chi è più forte o meglio si adatta. In natura non ci sono le elezioni, c’è il capo branco. In natura ci sono i virus, non gli ospedali. L’uomo tuttavia, nel corso dei secoli, ha fatto un calcolo di convenienza e ha scoperto che correggendo la natura, nei rapporti con la stessa, e nei rapporti con gli altri uomini, si può vivere meglio. Dal XVIII secolo in poi, il processo si è accelerato e rapidamente si sono costruite le società nelle quali viviamo e diamo erroneamente per scontate: società con molti beni e servizi a disposizione e regolate da leggi e istituzioni. Niente però è irreversibile: il sistema si regge sull’equilibrio incerto e sempre in discussione tra natura e cultura. Non ci sarà mai una società perfetta, perché non sono perfetti gli esseri umani.
Il secondo aspetto, pur all’interno del contesto prima accennato, riguarda però i meccanismi concreti che fanno funzionare le nostre società: su quelli si può intervenire. Il primo meccanismo, per rilevanza, è quello delle leggi elettorali. A che cosa servono le elezioni? Negli ultimi trent’anni, in Italia (e non solo), la risposta prevalente è: a scegliere il Governo. Risposta tecnicamente sbagliata e politicamente devastante. Se così fosse, saremmo regrediti al capo branco o se si preferisce al capo tribù. Eletto sì, almeno al primo giro, ma con la stessa funzione dei citati capi. Infatti, i sostenitori più accaniti della tesi, vorrebbero formalizzare la cosa, con l’elezione diretta del capo dell’esecutivo.

In realtà l’assunto democratico è che “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Questo il testo dell’articolo uno, secondo comma, della Costituzione repubblicana, in cui la seconda parte della frase è importante quanto la prima. Non possiamo stare tutti nella piazza di Atene a discutere e decidere in prima persona. Il motivo non è che siamo troppi, la tecnologia potrebbe aiutarci. Si ricorderà che la post-democrazia vagheggiata da Beppe Grillo, prima che Giuseppi Conte lo spazzasse via, era proprio questo: ognuno davanti al proprio computer interagisce con tutti gli altri e i numeri contati dal software decidono, nel principio dell’uno vale uno. Un vero incubo esistenziale, prima ancora che politico. Il motivo per cui non possiamo riunirci tutti nella piazza, fisica o virtuale che sia, è semplice: quando siamo coinvolti in prima persona, i nostri interessi del momento ci condizionano e ci impediscono di scegliere razionalmente il meglio (il meglio possibile, s’intende). Altrimenti la massima espressione di democrazia sarebbe l’assemblea di condominio.
E ancora: il lavoro politico è alto e complesso, richiede qualità specifiche. Non tutti si sentono in grado di affrontarlo, e non tutti ne hanno i requisiti. Non tutti hanno la vocazione del medico o dell’architetto, o del tornitore, o dell’idraulico. Non tutti hanno la vocazione del politico. Non ci sono criteri oggettivi, conta solo la scelta dell’elettore.
Quindi dobbiamo ricorrere alla rappresentanza, cioè scegliere qualcuno che decida per noi. Come lo scegliamo? Con le elezioni appunto, avendo cura di preferire chi riteniamo più adatto, valutando quello che ha fatto, quello che propone, con chi è propenso a collaborare. Che cosa dovrà fare il nostro rappresentante? Due cose essenzialmente: la prima fare le leggi, cioè le regole del vivere civile e l’allocazione delle risorse comuni. Anche qui non c’è da inventare niente. I padri costituenti lo hanno scritto semplice e chiaro, all’articolo 23. ”Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”, cioè la legge può imporre prestazioni personali (esempio il servizio militare) o patrimoniali (esempio le tasse). La seconda, scegliere il Governo: si formerà tra i rappresentanti una maggioranza di eletti che concorda su di un programma di governo e sulle persone che lo devono attuare: ad essi daranno la fiducia, che resta revocabile, perché i rappresentanti sono il popolo.

Poste queste premesse, l’elettore deve poter scegliere a ragion veduta. Deve conoscere il candidato, per farsene un’idea di prima mano, e deve avere a disposizione un’offerta politica abbastanza ampia per trovare qualcuno che non senta troppo distante. Non dirò più vicino, perché ognuno di noi è portato, per natura, a sentirsi vicino solo a se stesso. Quindi i rappresentanti non devono essere troppo pochi e devono essere scelti a livello di collegio, e in collegi piccoli ed omogenei, con liste brevi e criterio proporzionale puro di collegio. Senza trucchi che condizionino le scelte, come sbarramenti, premi di maggioranza, collegi uninominali, tutti artifici che minano la rappresentanza. Una legge elettorale siffatta sarebbe anche semplice, da scrivere, da capire e da applicare.
C’è solo un problema. Nessuna maggioranza parlamentare farà mai una legge elettorale astrattamente adeguata, ma ritenuta non vantaggiosa per i propri interessi. Carlo Calenda, con il sostegno di altri, ha proposto una assemblea costituente per riscrivere la seconda parte della Costituzione, quella sul funzionamento del sistema. Non è la sede per addentrarsi nella complessità del tema, per la sua vastità e complessità, politica e giuridica. Ma cito la proposta, per un aspetto che ritengo decisivo e applicabile alla scrittura della legge elettorale: la norma deve essere stesa da persone che non siano candidabili alle successive elezioni politiche, per non trovarsi in conflitto di interessi.
Di fronte alla crisi dei Parlamenti, la soluzione non è cancellarli (come sembra di moda), ma rivitalizzarli, consentendo all’elettore di scegliere liberamente i propri rappresentanti. Per ritornare alla considerazione iniziale: è probabile che non voteremmo un De Gasperi a suffragio universale diretto, ma i rappresentanti eletti potrebbero sceglierlo. Proviamo a rinunciare al leaderismo e a ritornare alla democrazia rappresentativa. Chissà che le cose non vadano meglio.
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