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Un libro per voi: "L'editore ideale" di Piero Gobetti

di Piera Egidi Bouchard

Forse, per comprendere appieno questo straordinario ed emozionante libriccino – che raccoglie le meditazioni personali, i tentativi autobiografici, sempre interrotti, di Piero Gobetti - val la pena di partire da quel “Commiato” (titolo redazionale nella pubblicazione del marzo 1926 su “Il Baretti”, la terza e ultima rivista da lui fondata): sono tre paginette manoscritte su un taccuino ritrovato a Parigi dopo la sua morte, il 16 febbraio 1926. Gobetti sta partendo per l’esilio, qualche giorno prima, dopo le botte fasciste e la “vita impossibile” creatagli dal regime, e annota (cito liberamente): “L’ultima visione di Torino, attraverso la botte traballante che va nella neve. Saluto nordico al mio cuore di nordico. Ma sono io un nordico? – si controbatte subito – Mi sentirò più vicino a un francese intelligente che a un italiano zotico, ma quando mi proporrò delle esperienze intellettuali, quando li guarderò per la mia cultura. (...) Io sento che i miei avi hanno avuto questo destino di sofferenza e di umiltà: sono stati incatenati a questa terra che maledirono e che pure fu la loro ultima tenerezza e debolezza. Non si può essere spaesati.” E, pur nel progetto che aveva di un nuovo lavoro intellettuale europeo, scrive: “Io sento che la mia azione altrove non avrà il sapore che ebbe qui: che le sfumature non saranno intese; che non ritroverò gli stessi amici che mi capivano.”[1]

La sua infanzia, che ritorna varie volte nei tentativi autobiografici mai conclusi è caratterizzata da una “ vita di campagna” in cui “correvo per i campi e lungo le rive del fiume”, ma da questa libertà nella natura “non nacque in me nessuna tendenza idillica. Il sentimento più profondo che la natura mi ispirò fu allora di mistero e mi valse come un richiamo alle mie meditazioni. In genere prevaleva in me il senso dell’avventura umana.”

E intanto c’è il duro lavoro dei genitori, che “avevano un piccolo commercio. Lavoravano diciotto ore al giorno. Il mio avvenire era il loro pensiero dominante. (...) L’impegno del loro lavoro era di arricchire e arricchire non soltanto per trovare la vita più facile ma per tener alta la testa. (...) Essi pensavano di dovermi dare un’istruzione, quella che essi non avevano potuto avere.” Ma - ricorda - “la mia educazione di bambino fu alquanto sommaria, affidata, come succede, a me stesso.” (da “L’Infanzia, pp.31-32, passim)

Annota Franco Antonicelli - curatore nel 1966 della raccolta di questi scritti perlopiù inediti - che “il libro solo” la “vecchia enciclopedia” su cui si era formato Gobetti, ancora “esiste, ed è piena di segni, di correzioni, di aggiunte e di sdegnosi insulti all’autore, La piccola Enciclopedia per le famiglie del Melzi.” – E, confessando la sua ammirazione per quel genio precoce, perché “ sentivo con disperazione che la distanza fra lui e me era troppo grande e mi annullava. Ci sono volute molte esperienze per colmarla un poco”, conclude riguardo a quell’Enciclopedia molto diffusa allora per i ragazzi: - “Ahimè! era stata anche il mio pane e non mi ero accorto che fosse così insipido e guasto.”

Ancora in tre pagine manoscritte, senza data, il giovane Gobetti annota: “Osservare i giusti rapporti tra la valutazione di sé e la valutazione delle cose sembra meno agevole che l’inserirsi con la mera azione in un processo storico. Credo di poter riconoscere le mie qualità più innate in una fondamentale aridezza e in una inesorabile volontà. (...) Sono dotato dalla natura come un primitivo. Sono ricco per istinto, per un impulso originario di vita; povero, solo, per tutto il resto. Ho l’anima e l’inquietudine di un barbaro, con la sensibilità di un cinico; la storia non mi ha dato eredità di sorta; l’ambiente in cui son vissuto non mi ha offerto comunicazioni, non ha alimentato i miei problemi, non devo nulla a nessuno. Se ho voluto la storia me la son dovuta creare io; se ho voluto capire, ho dovuto vivere; il mio gusto si è formato per duro proposito. Ho peccato per amore quasi infantile per la cultura, per la filosofia: bisognava bene che amassi qualcosa. (...) Dovevo anche fare in fretta; se mi guardo ora vedo proprio il desiderio gretto e feroce del povero che vuol arricchire. Cinico perché arido, forte perché solo e spregiudicato.(...) Ho soffocato la gioia e la confidenza nella precocità della riflessione.” (da “Intenzioni”.pp. 44_45)

La vita talora gli appare come “un pauroso enigma, come un tremendo destino che ti perseguita e non ti lascia fermo. Nella vita non c’è posto per i deboli. O si è vinti, e allora bisogna scomparire, e si scompare lentamente, passivamente, anche se non si muore. O si è più che uomini, e allora si vince. Ma per esser più che uomini bisogna sapersi plasmare mirabilmente l ‘anima senza pietà e senza paura, bisogna saper essere uomo ad ogni istante e cioè saper essere un uomo sempre diverso, sempre presente a se stesso, sempre domatore che non s’arresta di fronte a nulla, perché sa riconoscersi ad ogni momento e non ha altro scopo, altra vita che la sua spiritualità.”

Ma ecco le sue riflessioni di fronte all’immenso lavoro che ha davanti: “Com’è vasta la cultura che devo conquistare!”: di fronte a questo compito in lui prevale non la cultura per se stesso, ma la scelta dell’attività: “Io ho delle debolezze, ma le mie debolezze, i miei sconforti cedono sempre di fronte a un momento di attività, non esistono più quando vedo l’attuarsi di qualcosa di vivo, di grande, di spirituale. (...) Perciò faccio la rivista – siamo ai tempi della prima, “Energie Nove”, e Gobetti in questi pochi appunti ha solo 18 anni – Voglio impormi del lavoro. Trovarmi sempre di fronte a un compito più grave che devo superare. (...) Dicono che sono ambizioso, arrivista, egoista. Chi sa? (...) Ma per la mia fama. E che me ne importa? Non è meglio prodigarsi oltre che per sé per gli amici, per gli altri, per la cultura di questa povera patria. (...) Voglio aver dinanzi sempre concreta, viva, l’attività l‘attività dello spirito, voglio vedere me negli altri.” (“Inizio di un diario”, titolo redazionale , 1919, p. 46-49, passim )

Ma c’è l’incontro con la altrettanto giovanissima Ada - “La mia bella sorella d’elezione, come un angelo che mi guida e che insieme io devo aiutare a concretarsi” - che sarà la sua compagna di lavoro e di vita e gli darà il nutrimento dell’amore: “Sento finalmente l’amore come verità, come serenità. (...) Ho dovuto rifarmi un senso morale, un senso della vita forte a sedici anni, in gran parte a diciassette, e siccome me lo son fatto pensando a lei glie ne sarò grato sempre. (...) Ho creduto in lei e la amo tanto perché mi fa credere ancora adesso. (...) Sono scolaro e maestro insieme e solo a questo patto posso amare. (...) Questo amore è una mia conquista. Per perderlo dovrei impazzire. Ma non lo posso perdere. C’è in me la sicurezza dell’eternità.”( Ibidem, pp. 50-52, passim)

Poi dopo pagine di descrizione del suo incessante, “tumultuoso” lavoro, l’interruzione: “Due giorni di tortura, di strazio, di disperazione. Assistevo allo sfarsi dell’anima mia, inerte. Il tormento dell’autocritica. Non riesco più a dominarmi. Lascio perché analizzarmi non posso. E’ pericolo da cui potrei non più rialzarmi. Torno all’azione, che ieri mi pareva inutile, sciocca. La sfiducia nell’azione nell’attività si vince solo lavorando.” (Ibidem, p. 62)

E infine troviamo una paginetta manoscritta, anch’essa interrotta, senza data, su un foglio di carta intestata “Energie Nove” in cui si definisce non “un buon combattente per ragioni d’ironia, ma certo un degno soldato (...) Ora sono passati venti anni, e mi sembra di aver vissuto due vite. E’ l’ora di un bilancio, che non sia un arido elenco di risultati intellettuali, ma la scoperta delicata e terribile di una responsabilità.” (“L’ora di un bilancio”, titolo redazionale, pp. 65-66)

Il bilancio lo fanno i suoi scritti, le sue riviste, la sua corrispondenza di lavoro coi principali intellettuali del tempo, le sue bellissime lettere ad Ada, con le risposte della sua Didì, come si firma lei. Io qui ho voluto soltanto liberamente ripercorrere alcuni frammenti preziosi della giovanile ricerca di sé di un genio adolescente, la lotta spirituale di quel “prodigioso giovinetto”, e della sua interiorità.

Ma perché questo titolo del libro “L’editore ideale”( titolo redazionale anch’esso, quattro pagine manoscritte, senza data, ma del 1925)? Il Centro studi a lui intitolato ha voluto ricordare l’ulteriore grande impresa di Piero Gobetti nel centenario dalla nascita della sua casa editrice nel 1923, ripubblicando – scrive il direttore Pietro Polito nella Nota introduttiva – “La quarta edizione di quel gruppo di ‘pochi fogli frammentari’ da cui traspare la ‘storia interiore’ di Gobetti ‘nei termini deliberati di una confessione’ raccolti e proposti da Antonicelli, nel quarantesimo anniversario della morte, nel 1966, che coglie perfettamente la natura del giovane ‘editore/ creatore’: ‘è analisi critica, è tutto giudizio (...) Gobetti non fa altra ricerca, nella memoria, che dei ‘pochi segni decisivi’ del suo spirito di allora, non ci dà altra storia se non della sua crescita spirituale.’”

“Ho in mente una mia figura ideale di editore” oppure “Penso un editore come un creatore” si propone Gobetti - e Polito commenta che sembri parlare di un giovane e appassionato editore di oggi quando scrive: “Quattordici ore di lavoro al giorno tra tipografia, cartiera, corrispondenza, libreria e biblioteca (perché l’editore dev’essere fondalmentalmente uomo di biblioteca e di tipografia, artista e commerciante) non sono troppe anche per il mio editore ideale”. Se si vuole ripercorrere la genesi di questo libro, per cui Gobetti viene considerato tuttora “Maestro indiscusso dell’editoria italiana del Novecento”, occorre ulteriormente andare al denso saggio in Appendice di Marta Vicari, così come per il complesso dibattito e ricostruzione della datazione dei suoi iscritti, a quello accuratissimo della più grande studiosa gobettiana, Ersilia Alessandrone Perona.

Così come coinvolgente è l’Introduzione del curatore Franco Antonicelli (in alto a sinistra nella foto), in cui il lascito e l’esempio gobettiano – pur in un percorso autonomo nella storia, in particolare con il suo avvicinamento al Pci-Psiup, nelle cui liste venne eletto al Senato come Indipendente di sinistra nel 1968 e nel 1972, che lo fece definire da Stajano come un “liberale tra le bandiere rosse”- viene ricostruito e sottolineato nel saggio conclusivo di Pietro Polito, che cita anche molti dei suoi versi, quale quello vergato il 14 settembre 1972, “nel quale, credo – conclude - l’intransigente Piero Gobetti si sarebbe riconosciuto: ‘Che cosa possiamo fare noi? Anzitutto non vendersi/ e sapere che il diverso non può stare col diverso/ sotto la stessa pelle di lupo’.”


Note

[1] Piero Gobetti, L’editore ideale – Frammenti autobiografici, con iconografia a cura e prefazione di Franco Antonicelli -, Nuova edizione a cura di Pietro Polito e Marta Vicari, Aras Edizioni, 2023.



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