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STEEME COMUNICATION snc

Un cavallo di Troia nella 194: Governo a testa bassa contro lo spirito della legge

Aggiornamento: 17 apr

di Emmanuela Banfo


Maternità come scelta. Maternità come obbligo. La prima fondata sulla libertà e sulla responsabilità. La seconda come destino obbligato, come costrizione, come dovere sociale. Gli ultimi interventi sul tema, a 46 anni dall’entrata in vigore della legge 194 sulle "Norme per la tutela della maternità e sull’interruzione volontaria di gravidanza", non individuano come urgenza verificare il buon funzionamento dei consultori, accertare quanto i medici obiettori impediscano l’effettivo rispetto della legge costringendo, a chi se lo può permettere, di rivolgersi ad altre Regioni o addirittura di andare all’estero o se davvero le donne lavoratrici, specialmente nel privato, possono usufruire dei diritti loro concessi per l’accudimento della prole, nient’ affatto: l’urgenza è consentire alle associazioni private anti-abortiste di entrare nel consultori. Tutto questo richiamandosi all’articolo 2 della legge 194.


L'emendamento di Fratelli d'Italia nel Pnrr 

La premessa, dunque, è prima di tutto capire se questo ingresso costituisca davvero una priorità. E capire anche perché farlo, quasi di soppiatto, con un emendamento nel Pnrr. Un argomento così eticamente sensibile, potenzialmente divisivo, come lo fu già nel 1978, non è corretto, pure dal punto di vista politico, farne fonte di conflitto. Lo sforzo con cui si mossero a quel tempo le donne, di orientamento etico, politico, religioso diversi (non sono solo i cattolici anti abortisti) era di trovare un equilibrio tra punti di vista differenti e il testo legislativo rispecchia un lavoro di compromesso, molto faticoso.

Iniziamo, dunque, a sgomberare il campo sul nesso tra l’articolo 2 della legge 194 e l’emendamento al decreto Pnrr presentato da Lorenzo Malagola di Fratelli d’Italia e sul quale il governo Meloni intende mettere la fiducia. Se fosse così vero che sono la stessa cosa, c’è da chiedersi perché ribadirlo. La differenza invece c’è, sottile, ma non indifferente. Nella legge si afferma che i consultori possono avvalersi della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni di volontariato per aiutare la donna a rimuovere le cause della sua richiesta di interruzione di gravidanza e ciò in perfetta coerenza con lo spirito dell’intera normativa. L’ emendamento delega, invece, tale compito alle Regioni.


Un attacco all'azione dei consultori

Si passa da una realtà, oggi peraltro notevolmente indebolita, del consultorio che è realtà di rete dove coesistono e collaborano più soggetti professionali, realtà territoriale di prossimità a servizio del/della cittadino/a, a un organo di governo, condizionato e condizionante di scelte politicamente e ideologicamente orientate. Lo spirito della legge non è far entrare nei consultori associazioni abortiste o anti-abortiste allo scopo di esercitare pressioni psicologiche sulla donna sulla base di presupposti etici, religiosi o altro. Fin troppo facile è manipolare la donna che in quel momento è fragile e vive sulla sua pelle il peso di una scelta, la stragrande maggioranza delle volte, lacerante. Lo spirito, questo sì esposto dagli articoli 2 e 5 della 194, è di supporto nell’aiutarla a "rimuovere le cause che la porterebbero all’interruzione della gravidanza, di metterla in grado – enuncia il testo – di far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre, di promuovere ogni possibile intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante sia dopo il parto" . Più volte è rimarcato "nel rispetto della dignità e della libertà delle donne". Non si deve mettere in atto una qualsiasi forma di convincimento bensì agire nel concreto perché la donna non sia costretta ad abortire per cause indipendenti dalla sua volontà.


Un'operazione reazionaria di ampio respiro

Qui è lo snodo: che la donna possa davvero fare una scelta libera e non indotta dal partner, dal datore di lavoro, dalle ristrettezze economiche o altro. E per realizzare l’obiettivo ci vuole ben altro dell’emendamento di Malagola. Ci vogliono altre politiche sociali, altre politiche del lavoro, una cultura di parità di genere ancora agli albori. Quando le ultime statistiche ci confermano che in Italia una donna su 5 lascia il lavoro dopo il parto, la preoccupazione principale non dovrebbe affatto essere quella di inserire modifiche alla 194!

In realtà soggiace all’iniziativa di Malagola ben altro, ovvero un’operazione reazionaria a più vasto respiro. Si capisce meglio questa operazione, dalla grande portata valoriale, se si mettono insieme i tasselli, tra i quali i continui appelli alle donne a procreare (argomento questo della natalità spesso bipartisan e che avrebbe bisogno di un maggiore approfondimento su un pianeta terra che conta circa 8 miliardi di abitanti e che in proiezione nel 2100 oltrepasserà i 10 miliardi) per salvare l’Inps e per impedire la paventata "sostituzione etnica" (dimenticando che anche le immigrate cominciano a procreare meno). La donna, il suo essere femminile come essere per-la-maternità. Della serie se non generi non sei donna o non abbastanza donna. Questo il primo punto. Il secondo: la maternità è "affare di Stato", non è una questione privata, personale. L/le figli/e sono, sin dal grembo materno, cittadini/e (per coerenza, quindi, tutti/e, ma proprio tutti/e i/le nascituri/e dovrebbero acquisire in automatico la cittadinanza!).


Dove sono le politiche coerenti a favore della famiglia?

Il valore sociale della maternità non sta innanzitutto nell’atto della procreazione (coppie omoaffettive ne sarebbero escluse, la loro prole sarebbe senza valore sociale!) ma sta nel farsi carico come collettività del benessere della figliolanza, vedere davvero, e non a parole, i bambini, le bambine, i giovani, le giovani, come nostro tesoro particolare. E’ la loro presa in carico da parte nostra, farne il fulcro di tutti i nostri progetti per l’avvenire, tutti i nostri investimenti, che sostanzia la maternità. Quando si dice "sono il nostro futuro" poi dobbiamo mettere in atto politiche coerenti. Una maternità costretta, una maternità obbligata, non potrà mai essere fonte di benessere né per la madre né per il/la nascituro/a. La maternità è un grande dono, ma per essere tale non può e non deve essere accompagnata dall’alienazione e dalla mercificazione. Perché se è mercificazione l’utero in affitto è mercificazione trattare i corpi delle donne come corpi di produzione. La donna, in questa ottica, è un mezzo, uno strumento in mano ad altri.

Infatti assieme a una visione retrograda della donna-madre e della madre-per-lo-Stato, partenza questa ideologica che avvalla a esercitare un diritto sul corpo della donna incinta, c’è l’dea che non abbiamo libertà dei nostri corpi. Dalla nascita alla morte ci deve sempre essere un’entità, una sovrastruttura, sia essa Stato o Chiesa o Partito, che mette un’ipoteca, che vanta un suo potere decisionale. Tutto ciò che è attinente a quest’abito che indossiamo, il nostro corpo, ci riguarda innanzitutto personalmente. Siamo corpi che si muovono, agiscono, pensano, amano, s’incontrano, si abbracciano, ridono e piangono, provano emozioni, sentimenti. Abbiamo responsabilità di farli vivere pienamente, in armonia con se stessi e con gli altri. E ahimè siamo corpi mandati al macello dai guerrafondai che li trattano come esseri inanimati. Siamo, dovremmo essere, tutti movimento per la vita. Ma nel senso di promuovere la vita nei suoi diritti fondamentali, dalla salute alla scuola, dal lavoro alla partecipazione politica. La vita nasce dove nasce il rispetto.




























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