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"Sulle violenze di piazza, la democrazia non può negoziare"

di Antonio Nicolosi*


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Sentiamo ripetere sempre più spesso, con un cinismo che ci indigna profondamente, questa frase: “fa parte del mestiere”. Come se indossare una divisa significasse automaticamente rinunciare alla propria incolumità fisica, alla propria dignità professionale, al diritto fondamentale di svolgere il proprio lavoro in condizioni di sicurezza. Questa narrazione tossica, che sta prendendo piede nel dibattito pubblico e in certi ambienti politici e mediatici, rappresenta un attacco diretto non solo alle donne e agli uomini in divisa, ma al principio stesso dello Stato di diritto e alla tenuta del nostro sistema democratico.

Come organizzazione sindacale che da sempre si batte per i diritti, la dignità e la tutela dei lavoratori delle forze dell’ordine, rigettiamo con forza questa pericolosa deriva culturale. Non accettiamo che la violenza subita dai nostri iscritti venga normalizzata, minimizzata o peggio ancora giustificata attraverso un’interpretazione distorta del diritto di manifestazione. È necessario ristabilire la verità dei fatti e riaffermare con chiarezza alcuni principi non negoziabili che riguardano la sicurezza sul lavoro, il rispetto delle persone che garantiscono l’ordine pubblico e la distinzione fondamentale tra dissenso legittimo e aggressione criminale.

Manifestare è un diritto costituzionalmente garantito, una conquista democratica irrinunciabile che nessuno vuole mettere in discussione. Il dissenso, l’espressione del pensiero critico, la protesta sociale sono elementi vitali di una democrazia sana e matura. Ma tra manifestare pacificamente e devastare sistematicamente città, aggredire operatori delle forze dell’ordine, paralizzare infrastrutture strategiche, danneggiare proprietà pubbliche e private c’è un abisso incolmabile. Questo abisso ha un nome preciso: si chiama illegalità, si chiama violenza organizzata, si chiama criminalità di piazza che nulla ha a che vedere con l’esercizio democratico del diritto di espressione.


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Quando un gruppo organizzato scende in piazza non per manifestare idee, ma per imporre il caos attraverso la violenza fisica, quando vengono sistematicamente presi di mira colleghi che stanno semplicemente svolgendo il proprio dovere professionale, quando si pianificano tattiche di guerriglia urbana finalizzate a ferire, intimidire, umiliare chi indossa una divisa, non siamo di fronte a manifestanti ma a delinquenti che utilizzano pretesti politici per legittimare comportamenti criminali. E la nostra richiesta come sindacato è semplice e limpida: che questi comportamenti vengano chiamati con il loro nome, perseguiti con determinazione dall’autorità giudiziaria e condannati senza ambiguità dall’opinione pubblica.

Chi indossa una divisa delle forze dell’ordine non ha firmato un contratto che prevede tra le clausole l’accettazione di violenze gratuite. Ha giurato fedeltà alla Repubblica, ha scelto una professione di servizio alla collettività, ha accettato responsabilità gravose e spesso rischi connessi all’attività operativa. Ma non ha rinunciato al diritto alla propria incolumità fisica, né alla dignità personale e professionale. I nostri iscritti sono lavoratori con famiglie che li aspettano a casa, sono cittadini con gli stessi diritti di chiunque altro, sono professionisti che meritano rispetto per il lavoro complesso e delicato che svolgono quotidianamente in condizioni spesso difficilissime e con dotazioni non sempre adeguate.

La retorica del “fa parte del mestiere” è pericolosissima perché normalizza l’inaccettabile e crea un precedente devastante. Se accettiamo questo principio per le forze dell’ordine, dove tracciamo il confine? Dovremmo forse accettare che fa parte del mestiere per un insegnante subire aggressioni da parte di genitori violenti che contestano un voto? Che fa parte del mestiere per un medico o un infermiere essere picchiato in un Pronto Soccorso affollato da un familiare esasperato dai tempi di attesa? Che fa parte del mestiere per un vigile del fuoco essere assalito mentre sta rischiando la vita per spegnere un incendio in un quartiere difficile? Che fa parte del mestiere per un ferroviere, un autista di autobus, un operatore sanitario subire violenze sistematiche nell’esercizio delle proprie funzioni?

Questa è la china scivolosa sulla quale stiamo pericolosamente avanzando: una progressiva desensibilizzazione sociale verso la violenza contro chi lavora per la collettività, una gerarchia implicita della vittimizzazione che distingue tra aggressioni “comprensibili” e aggressioni condannabili, un doppio standard morale che giustifica la violenza quando proviene “dal basso” o quando è ammantata di motivazioni politiche o sociali. Come organizzazione sindacale rifiutiamo categoricamente questa logica perversa. Violenza è violenza, sempre e comunque, indipendentemente da chi la perpetra e da quali motivazioni pretende di addurre.

I nostri colleghi non sono carne da macello, non sono bersagli legittimi per la frustrazione sociale, non sono strumenti sacrificabili sull’altare di una malintesa tolleranza verso ogni forma di protesta, anche quella violenta. Sono lavoratori che meritano rispetto, tutele concrete, riconoscimento sociale per il ruolo fondamentale che svolgono. Sono persone con famiglie, aspirazioni, fragilità, che hanno scelto una professione difficile per servire la collettività e che non possono essere abbandonate al loro destino quando vengono sistematicamente aggredite.

Non accetteremo mai che la violenza contro le forze dell’ordine venga considerata normale, fisiologica, inevitabile. Non accetteremo che chi ci aggredisce venga trattato con comprensione, mentre chi subisce l’aggressione viene invitato ad abbassare la testa perché “fa parte del mestiere”. Non accetteremo che la difesa della legalità venga dipinta come repressione mentre la violenza criminale viene nobilitata come resistenza.

Come organizzazione sindacale continueremo a batterci per la dignità, i diritti e la sicurezza di tutti i lavoratori in divisa, senza arretrare di un millimetro di fronte a narrazioni distorte o pressioni politiche. Perché se cede il principio fondamentale che nessun lavoratore deve subire violenza nell’esercizio delle proprie funzioni, se accettiamo che esistano categorie professionali per le quali l’aggressione è “normale”, allora stiamo rinunciando a un pilastro essenziale della convivenza civile e dello Stato di diritto.

La violenza non fa parte di nessun mestiere. Mai. E su questo principio non negozieremo mai.


*Segretario Generale UNARMA Associazione Sindacale Carabinieri

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