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Siria, il Vietnam della coscienza d’Europa

Aggiornamento: 9 apr 2023

di Michele Ruggiero

La guerra civile in Siria, che perdura dal 15 marzo del 2011, secondo le ricostruzioni temporali che la fa coincidere con l’inizio delle proteste contro il governo di Assad, si è progressivamente trasformata in una tempesta emotiva, politica (interna) e strategica sull’Europa. Tempesta emotiva per l’impatto che ha avuto sui destini e il martirio della popolazione civile, piegata da nove anni di bombardamenti e distruzioni; politica per gli effetti delle migrazioni sull’onda lunga di chi cerca una via di salvezza, di fuga dall’inferno siriano attraverso la Turchia, risalendo la Grecia, o con gli sbarchi sul territorio italiano; strategica, poiché ha messo il Vecchio Continente dei 27 Paesi che siedono al Parlamento di Bruxelles, dinanzi alle proprie laceranti esitazioni nell’assumere posizioni comuni per soffocare una guerra che ha reclutato, all’opposto, nuovi attori, primo fra tutti l’Isis. Su questo “triangolo”, i cui lati sono emotivo, politico e strategico, si fonda l’inaridimento della capacità prospettica dell’Europa rispetto al Vicino Oriente (oltre alla Siria, è saltato anche un piano di autorevole rappresentazione nel conflitto Israele-Palestina) e all’Africa (dai paesi rivieraschi, in primis la Libia, a quelli della parte orientale). Ne è derivata, nell’ultimo decennio, anche una perdita del ruolo di mediazione che Italia e Francia detenevano per la loro posizione geografica e passato con cui si garantiva l’equilibrio dell’area mediterranea. La superficialità con cui sono stati regolati i conti con il leader libico Gheddafi, tra l’altro, è soltanto effetto e non causa – se vogliano evitare semplificazioni – dell’abbandono di una storica autorevolezza. Se così non fosse, Italia e Francia, insieme all’Europa, avrebbero avuto immediatamente voce in capitolo nel gestire il dopo Gheddafi, anziché ritrovarsi tutti insieme appassionatamente ad assistere da ultimo all’invasione di campo della Turchia di Erdogan che sogna una nemesi storica del 1911, anno della guerra tra Impero Ottomano e Italia giolittiana, quest’ultima sospinta da tensioni interne a reclamare lo “scatolone di sabbia” libico. Inducono a queste riflessioni anche il recente articolo di Bernard Guetta1, in cui l’editorialista francese bacchetta l’inazione dell’Europa, sottraendola però a responsabilità specifiche per la contemporanea responsabilità di terzi, dalla Siria di Assad, agli Stati Uniti, alla Russia, alla Turchia, citati in ordine di apparizione sulla scena del crimine. Responsabilità che sono interpretate – o meglio è questa l’impressione – sempre e comunque superiori al disimpegno europeo, cui oggi si chiede un’inversione di marcia. Ma sarà ancora possibile? Domanda che sorge spontanea e doverosa per rispetto al dramma di quei 900 mila profughi schiacciati nella sacca di Idlib, al confine con la Turchia, oggi diventati arma di ricatto di Erdogan Pascià, ma già respinti al mittente dalla presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen che ha promosso la Grecia a “scudo d’Europa”, nell’ipotesi di respingimento alle frontiere, complice naturalmente l’emergenza coronavirus che retrocede in serie B tutto e tutti, comprese le nostre coscienze per la sorte di quasi 20 mila migranti annegati avventurandosi sulle carrette della morte nel Mediterraneo. Un destino da serie cadetta cui sarebbe destinata anche l’ipotesi ventilata da Guetta di un cordone umanitario sostenuta dalla minaccia – più che dalla concreta realizzazione – di una guerra cosiddetta “umanitaria”, la cui credibilità è però ai minimi sindacale per l’imperizia con cui è stata condotta in altre occasioni dalle democrazie occidentali. Una “guerra umanitaria” sotto l’egida della Nato (organismo in crisi) che Guetta giustifica – ed è il secondo elemento che lascia più di una perplessità nel lettore – con le responsabilità della crisi addossate unicamente ad Assad, mentre il mondo intero sa bene che le sacche di resistenza jihadista sono state nutrite dalla Turchia che a sua volta ha trovato a fasi alterne, secondo le convenienze del momento, l’appoggio di Putin, l’unico tra i tanti leader a non avere una strategia a singhiozzo, ma che punta decisamente a “ripopolare” il mar Mediterraneo con la presenza russa, esattamente come lo era negli anni Sessanta il mare Nostrum popolato di navi da guerra battenti la bandiera dell’Urss. Dunque, con una situazione gravemente compromessa non si può ricorrere a politiche ad intermittenza, il cui esito scontato si porta già dietro la parola fallimento. _______ 1 B. Guetta, Cosa rischiamo in Siria, “la Repubblica” del 6 marzo 2020 (riprodotto e consultabile al link: https://www.apiceuropa.com/wp-content/uploads/2020/03/6.3-COSA-RISCHIAMO-IN-SIRIA.pdf)


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