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  • Menandro

Salvini, il Polifemo della Politica

di Menandro


Le parole, specialmente se pronunciate da chi riveste ruoli istituzionali o di governo, sono come pietre. Cioè possono fare male e diventare pericolose, oltre che ad essere caratterizzate da un alto livello diseducativo. Ma per alcuni, evidentemente, il principio non vale e le parole continuano ad essere sassolini, più o meno della stessa dimensione di quelli che Pollicino, il personaggio della fiaba di Perrault, getta sul sentiero per ricordare la strada di casa, dopo essere stato abbandonato nel bosco con i suoi fratelli dal padre taglialegna. Dunque, sassolini innocui, quasi immateriali, impalpabili.

Di questa convinzione, senza peraltro essere mai stato abbandonato in tenera età, presumiamo, pare essere visceralmente dominato il ministro alle infrastrutture Matteo Salvini, citofonista à la page all'epoca in cui era ministro dell'Interno e "sosteneva", telecamere al seguito, le operazioni antidroga delle forze dell'ordine con cipiglio e domande dirette a presunti spacciatori, alla stregua di un sondaggio commerciale per la promozione di un detersivo. Insomma, è un ministro che ha nel suo pedigree e nel suo Dna maniere spicce e forti, una spiccata vocazione al coraggio, di quelli tosti che le sa cantare a mondo e dintorni senza guardare in faccia nessuno; cosa peraltro che gli riesce particolarmente facile con quei migranti che la faccia se la ritrovano schiacciata sulla sabbia, dopo aver "invaso" le nostre coste. Ed è proprio sulle coste che il ministro ha innescato la nuova polemica, stavolta diretta su don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele e anima dell'associazione antimafia Libera, reo di aver sollevato con un naturale interrogativo - non un dubbio un filosofico, ma il frutto di un'esperienza concreta - sul progetto del governo di centro destra di realizzare il Ponte di Messina.

E' "una vergogna e una mancanza di rispetto nei confronti di milioni di persone perbene che meritano di lavorare, di studiare e di fare il pendolare di andare a farsi curare come tutti gli altri", ha tuonato (luogo comune, ma irresistibile quando si deve descrivere il timbro di voce di Salvini) il ministro alle Infrastrutture alle parole di don Ciotti, preoccupato che il ponte più che unire due coste (Scilla e Cariddi) possa unire due cosche ('Ndrangheta e Cosa Nostra).

Ora, nella convinzione che don Ciotti meriti difensori migliori di noi, ci asteniamo dall'entrare nella disfida verbale che si profila ancora per qualche giorno con Salvini. Però, sappiamo bene che in tutti noi sorge spontanea e non gratuita la domanda su che cosa ispiri Matteo Salvini a lanciare pietre, anzi pietroni contro chiunque abbia un'idea difforme dalla sua o dal governo che rappresenta. E che lo faccia con riconoscibili furia iconoclasta e livore diarroico più da attore di avanspettacolo che da uomo delle istituzioni, non ne attenua le responsabilità, sia chiaro. Anzi. Accostare verbalmente senza filtri, come riportato da più fonti, l'ipotetico avversario di turno alle proprie crude sensazioni emotive o concrete è comunque indelicato sul piano pubblico. E quell'affermazione gettata indirettamente addosso a don Ciotti - "mi fa schifo che qualcuno pensi che Sicilia e Calabria rappresentino le cosche. Fino a che c’è qualcuno all’estero che dipinge l’Italia come mafia pizza e mandolino, fa schifo ma è all’estero. Se c’è qualche italiano che continua a dipingere l’Italia come mafia, pizza e mandolino, se espatria fa un favore a tutti" - propone una vena di imbarazzo almeno al minimo sindacale per come un ministro della Repubblica italiana usi il vocabolario della lingua italiana come un lavandino in cui vomitare il peggio del peggio sugli avversari.

Saremo franchi e sgombriamo il campo da banali irruzioni nel mondo della psicoanalisi: il ministro Matteo Salvini non ci sembra un soggetto degno d'interesse clinico da inviare ai pronipoti di Sigmund Freud; il "maestro" probabilmente non gli avrebbe dedicato neppure una seduta per spiegare la ragioni del suo continuo lanciare parole che si trasformano in pietre. Tantomeno lo potrebbe fare lo strepitoso Gian Pieretti, il cantautore di "Pietre", del "sei cattivo e ti tirano le pietre", uno specialista dunque più per la cura delle vittime che non dei tirasassi.

Quindi, sono giunto alla conclusione che meglio di chiunque altro potrebbe essere il mio connazionale Omero a spiegarci l'atteggiamento del ministro alle Infrastrutture. E a venirci in soccorso con il canto IX dell'Odissea, dedicato all'approdo di Ulisse e compagni nella terra dei ciclopi e all'impatto con la prepotenza e la violenza sanguinolenta di Polifemo. Ricordate il ciclope che scaglia immani sassi nel vuoto? Caduto nel tranello dell'astuto Ulisse, Polifemo è stato accecato, urla di dolore e di rabbia, ma non sa denunciare agli altri ciclopi chi è responsabile della sua cecità. Polifemo è vittima della sua sicurezza e protervia. Il rischio che potrebbe correre Matteo Salvini, da tempo aduso a spingere l'asticella verbale sempre più in alto, forse convinto di essere, e magari lo è davvero, un intoccabile. Ma in politica non sempre è così. E se un giorno, che non gli auguriamo, sia chiaro, dovesse diventare cieco - politicamente parlando - non si stupisca se alla domanda "chi ti ha accecato?", si ritroverà a rispondere "Nessuno, nessuno..." e a lasciarsi andare in solitudine al proprio dolore, abbandonato sulla sabbia di una costa rigorosamente comunque italiana.

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