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Privatizzare la guerra. Moderni contractors e antichi mercenari

Aggiornamento: 13 apr 2023

di Germana Tappero Merlo

Si è parlato a lungo negli ultimi mesi di mercenari al soldo di potenze straniere e ingaggiati nei sempre più numerosi conflitti di ogni livello di intensità, in ogni dove nel mondo. Nelle ultime settimane, il tono si è fatto più acceso per via dei jihadisti siriani, stipendiati dalla Turchia e inviati con ponte aereo in Libia a combattere a fianco delle truppe di al-Sarraj e a contrastare, fra gli altri, anche i mercenari russi della potente organizzazione paramilitare Wagner dell’oligarca Yevgeny Prigozhin, giunti in Cirenaica come aiuto di Putin al gen. Haftar e soci. Notizie che hanno fatto scalpore, ma solo per chi non è addentro da tempo alla sicurezza internazionale. Da anni, infatti, il fenomeno delle società private ingaggiate in scenari di guerra è presente, si è diffuso, ha prosperato e ha assunto caratteri che potrebbero ben presto creare timori anche per la sicurezza del nostro Paese. Ma procediamo con ordine, facendo dei distinguo necessari per capire una complessa questione, trattata al pari di un tabù e quindi mai affrontata come merita. Ancora una volta, come sempre accade nelle questioni spinose delle relazioni internazionali del nuovo millennio, lo spartiacque è dato dalla fine della guerra fredda e la smobilitazione, il ridimensionamento e soprattutto la riorganizzazione di tutti gli eserciti nazionali su entrambi i fronti, quello occidentale e quello sovietico, che ne seguirono. Si calcola che nel giro di un decennio, gli anni ’90, almeno 7,4 milioni di ex soldati si ritrovarono disoccupati, a fronte però di sempre più numerosi conflitti locali e interregionali, a cui presto si aggiunse la guerra al terrore dopo l’11 settembre. Dapprima fu l’Afghanistan e poi l’Iraq dove la figura dei contractors privati (come quelli della Blackwater del massacro di civili a Bagdad, nel 2007, per intenderci) iniziò ad emergere come professionista a fianco dei militari di carriera e in quelle funzioni che avevano subìto tagli nei bilanci nazionali come la logistica, la close protection a persone e strutture, e l’approvvigionamento. Funzioni che, in breve tempo, andarono però ampliandosi anche al supporto operativo, di addestramento e ad azioni di combattimento, visto l’aumento di conflitti limitati che vedevano coinvolti Stati carenti di organici adeguatamente preparati. Si assistette così all’incremento degli interventi delle società militari e di sicurezza private, e il loro allargamento a settori ‘sensibili’, come l’intelligence e l’analisi, con un giro di affari che, è stato stimato, ruoti oggi attorno ai 50-60 miliardi di dollari annui. Divenne ben presto impellente, quindi, tentare una regolamentazione. Quei primi contractors appartenevano, e ancora appartengono, alle c.d. società private militari (PMC), di sicurezza (PSC) e per l’intelligence (PIC). Il loro impiego è ora regolamentato dal Documento di Montreaux del 2008 (l’Italia vi ha aderito nel giugno 2009), per iniziativa della Svizzera e sotto l’egida della Croce Rossa Internazionale e nel rispetto delle Convenzioni di Ginevra di diritto umanitario internazionale in zone di guerra. Quel documento propone un quadro giuridico generico ma sottoscritto e condiviso da 56 Stati, 3 organismi sovranazionali e alcune grandi Ong che, da alcuni anni, stanno ricorrendo ampiamente ai servigi dei contractors privati in aree di crisi e conflitto. Tuttavia, se su tutte le sottoscrizioni del documento di Montreux spiccano quelle degli Stati Uniti, di gran parte dei Paesi europei e della Cina, latita invece la firma della Russia e quelle di tutti gli Stati mediorientali, eccetto Giordania e Iraq. Non cosa da poco conto viste le crescenti divergenze armate nella regione e le ambizioni di influenza di tutti quei protagonisti, nessuno escluso come, in primis, l’Arabia Saudita e gli Emirati. Non è un caso infatti che costoro, carenti sì di uomini in divisa ma abbondanti di denaro e di armamenti (l’Arabia Saudita è il terzo Paese per acquisto di armi), da anni facciano ricorso a mercenari, di quelli autentici, nel vecchio stile delle bande armate “inutili e periculose”, nel giudizio di Machiavelli, composte da ex appartenenti a forze d’élite, criminali e narcotrafficanti in cerca di nuova occupazione. É il caso dei colombiani, panamensi, cileni e salvadoregni che, ingaggiati dalla Reflex Responses (R2), addestrati da ‘professionisti’ americani, britannici ed israeliani, sotto la guida del colombiano Oscar Garcia-Batte hanno affiancato le forze della coalizione saudita in Yemen in guerra contro quelle supportate dall’Iran. Mercenari al soldo di Riyadh e pagati su conti ad Abu Dhabi, affiancati poi da forze irregolari sudanesi, per lo più di sopravvissuti del Darfur, nelle cui fila vi sono combattenti giovanissimi, poco più che adolescenti. Quello yemenita è solo uno degli esempi più recenti, a cui si affianca l’esperienza ora dei mercenari-jihadisti siriani ingaggiati dalla Turchia e inviati in Libia, con regolare contratto semestrale sottoscritto dal governo di al-Sarraj, quel GNA voluto dall’Onu e riconosciuto da gran parte della comunità internazionale, per una paga mensile attorno alle 1500 sterline. Uno stipendio 30 volte superiore a quello misero garantito a costoro nel conflitto in Siria, con le promesse – sebbene poi smentite dalla Turchia – di un passaporto turco ad ingaggio finito, assicurazione e assistenza medica gratuita ai feriti e rimpatrio sicuro dei feretri dei caduti sul campo. Insomma, nelle guerre del nuovo millennio, accanto alle forze regolari operano i moderni contractors sotto l’egida di una regolamentazione internazionale – ancora traballante ma con contorni giuridici almeno definiti e sottoscritti, e sovente supportati da una legislazione nazionale in merito, e l’Italia è ancora carente in tal senso – a cui si contrappone, sempre più sovente, l’ambiente più vasto ma soprattutto anarchico di mercenari all’antica. Al di là delle ovvie considerazioni etiche – a cui peraltro è sensibile solo un’esigua fetta del mondo occidentale – si tratta di un’emergenza per la sicurezza globale. Le preoccupazioni riguardano l’uso spregiudicato di questi mercenari in continuo spostamento in scenari bellici (per i russi della Wagner, ad esempio, dall’Ucraina, 2014, all’assedio di Deir Ezzor in Siria, 2016-17, sino alla Repubblica Centro Africana nel 2018, e ora in Libia) o nel reprimere proteste popolari (come è accaduto in Venezuela, sempre con mercenari russi), con i loro collegamenti (provati) con la criminalità organizzata sovranazionale e, non da ultimo, senza il controllo dei loro spostamenti, da cui la recente allerta, sebbene da verificare, della fuga di circa 150 jihadisti siriani-turchi dalla Libia, di cui una dozzina avrebbero tentato di raggiungere le coste dell’Italia e trovare rifugio in Europa. Il rischio, in generale, è che, dato l’ampliarsi dell’instabilità mondiale, unita alle velleità di potere di numerosi soggetti, a fronte di una debolezza degli organismi regionali e sovranazionali a gestire le crisi, anche nelle moderne guerre oggetto di privatizzazione selvaggia valga la collaudata regola economica che la moneta cattiva scaccia sempre, inevitabilmente, quella buona. Un rischio non così remoto che si profila con il ricorso a mercenari vecchio stampo. L’intera questione richiede attenzione, dibattito e confronto per superare ogni remora, sdoganare i tabù che la circondano e riportare il tutto, per quanto possibile, in un contesto di regole condivise, la cui applicazione, soprattutto, venga verificata. E sono queste regole condivise, ancora una volta, che fanno la differenza per un Paese come il nostro, esposto nel turbolento Mediterraneo, fra ordine e sicurezza a fronte di anarchia e vulnerabilità.


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