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Per passione, non solo musica e parole...

Ripartiamo da Odio l'estate di Bruno Martino

a cura del Baccelliere


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Settembre è la fine dell’estate. Qualcuno dirà finalmente. Perché la fine dell’estate è di fatto un inizio. E l’autunno imminente, dopo la sbornia di riposo, è l’anabasi, il viaggio nell’interno, la riscoperta della propria effettiva inclinazione, la voglia di ripartire[1].

In questo autunno, che è cominciato con le celebrazioni del centenario della nascita di Andrea Camilleri, ricorrerà anche quello di Bruno Martino (1925-2000), che è stato una figura singolare, anche per il periodo in cui si è affacciato sulla scena: l’Italia dell’immediato dopoguerra. In quell’epoca i musicisti crescevano fra le orchestre e il conservatorio. E naturalmente il night, allora si chiamava così, coltivando influenze jazz e adattandole alla musica leggera.

Bruno Martino suonava il pianoforte e cantava. Negli anni ’50 aveva suonato a lungo nel Nord Europa, dove si dedicava ad una contaminazione orchestrale di jazz e musica napoletana. Già allora componeva con sensibilità. Fu negli anni ’60 che ebbe successo in patria. La sua fu una specie di formula negativa. E qui veniamo al motivo per cui vale la pena di ricordarlo in questo settembre appena iniziato. Bruno Martino non componeva tormentoni ma all’estate dedicava pensieri discordanti. Il capolavoro del suo songbook si intitola Odio l’estate. Atmosfere soffuse prendono il posto di balli scatenati. Armonie sofisticate innervano una certa – apparente – indolenza. Le parole fanno riferimento a un amore finito e alla necessità di ritrovare un minimo di serenità con il ritorno alla normalità post vacanziera. A un certo punto gli autori decisero di cambiare il titolo in Estate. Troppe parodie[2] avevano suggerito di variarla.

Estate fu una hit internazionale. La fecero propria numerosi altri interpreti di varia estrazione, da Joao Gilberto e Chet Baker a cantanti pop come Mina e Andrea Bocelli. A chi scrive piace fra tutti ricordare un musicista che di Estate fece uno dei suoi cavalli di battaglia. Stiamo parlando di Michel Petrucciani. Pianista francese di rara sensibilità, Petrucciani sapeva trascendere i propri problemi di salute attraverso il pianoforte. Affetto da una forma di osteogenesi imperfetta che ne aveva minato lo sviluppo fisico, si era dedicato completamente al pianoforte. Sentirlo suonare dava un’impressione di potenza e di padronanza dello strumento. Sembrava abbracciare con il proprio talento e la propria inaspettata fisicità l’enorme Steinway gran coda che si trovava davanti[3]. Michel Petrucciani ci ha lasciati trentaseienne il 6 gennaio 1999. È sepolto nel cimitero di Père-Lachaise a Parigi, luogo di sepoltura di personaggi illustri, e la sua tomba è vicina a quella di Chopin. La sua Estate ci accompagna nell’aria fresca che in queste mattine di inizio settembre ci invita al rientro[4].


Note

[1] Curiosamente il riferimento si trova in una canzone del largo corpus gucciniano che si intitola Le piogge d’aprile https://youtu.be/2WZRd3ZNPX4?feature=shared .

[2] Lelio Luttazzi l’aveva beffardamente cantata come Odio le statue.

[3] Riusciva ad arrivare ai pedali grazie ad un meccanismo creato apposta per lui.

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