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Aggiornamento: 26 ago

Born to run, l'epifania di Bruce Springsteen


a cura del Baccelliere


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Il 25 agosto 1975, dopo una lunga gestazione, fu pubblicato Born to run, il terzo disco di Bruce Springsteen. Non c’è bisogno della retorica del “sembra ieri”. Sono passati cinquant’anni e si sente. Basta annusare l’aria, fare un giro in centro e vedere quanti negozi di dischi ci sono ancora. E rendersi conto che ciò che rappresentava bene prezioso per i ragazzi della metà degli anni ‘70 non è più così essenziale per i loro coetanei del ventunesimo secolo.

Springsteen ci arrivò dopo una gavetta durata due lustri. Aveva quasi ventisei anni, un’intensa attività dal vivo soprattutto nel New Jersey, dove era una celebrità. Jon Landau aveva recensito un suo concerto, dedicandogli la frase “ho visto il futuro del rock & roll”[1]. Bruce era una forza della natura dal vivo[2] ma, anche se i primi due dischi avevano avuto una buona accoglienza, non era ancora riuscito a trasferire questa energia su disco.

Born to run rappresentò la cesura, il punto di arrivo e il punto di partenza. Fu un disco travagliato, la cui realizzazione richiese numerose sessioni di lavoro, rifacimenti, reincisioni. Lo stesso Landau fu coinvolto come produttore esecutivo. Iniziate a gennaio 1974, le incisioni si conclusero a luglio del 1975. La E Street Band cambiò alcuni componenti e raggiunse una configurazione stabile che andò avanti per il decennio successivo. I musicisti arrivarono a fine estate stremati. Il disco era diventato una specie di ossessione. Chi lo ascolti ancora oggi può cogliere una commistione di influenze che vanno dal rock al rhythm and blues, dal folk al punk.

Ma Born to run è soprattutto l’epifania di Springsteen, che vi si rivela come l’unione delle molteplici facce della musica americana, crocevia di culture e crogiolo di elementi. Un grande disco, con un sound stratificato e robusto. A tratti si ha l’impressione che il rock, a vent’anni dall’esplosione di Elvis Presley, si guardi allo specchio e rifletta, con vigore, su se stesso[3]. La copertina, pieghevole e in bianco e nero, ritraeva Springsteen insieme al saxofonista Clarence Clemons, ritratto - interrazziale - di due amici sorridenti. Anche questa una piccola rivoluzione.

A cinquant’anni di distanza, quello che resta dell’industria discografica coglie ormai tutte le occasioni per fare marketing e anche in questo caso è stato pubblicato un inedito, Lonely Night in the Park[4], che abbiamo l’impressione aggiunga ben poco. Roba da collezionisti.

Oggi un’opera del genere sarebbe irripetibile. I dischi non si vendono più. E per certi versi gli strumenti della tecnologia rendono più semplice farli. Sono meno suonati, meno basati sul fattore umano. Born to run arrivava dopo decine di esibizioni dal vivo, che avevano determinato la nascita di un suono, originale e ben riconoscibile. È figlio di una generazione la cui aspirazione era stare in una band di rock and roll. Non andare a X Factor. Il fatto collettivo prima dell’affermazione individuale. Ci troviamo al cospetto di uno dei frutti migliori di un’altra epoca. Se avete tempo ascoltatelo tutto, fino a Jungleland[5], ultima traccia della seconda facciata. Inevitabile che, sfumate le ultime note, rimanga un retrogusto di malinconia.


Note

[1] Landau pubblicò un pezzo sulla rivista The Real Paper, il 9 maggio 1974, in cui recensiva il concerto di Bruce Springsteen all’Harvard Square Theatre di Boston.

[2] Lo accompagnava la E Street Band, che era una band affiatata e potentissima.

[3] ascoltare la cavalcata del brano che dà il titolo al disco per averne un’idea https://youtu.be/Wu4_zVxmufY?si=GvvGhYTcHJqJvF8v

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