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Osservando i nostri tempi

La vera sfida è la ricerca dei valori

di Domenico Cravero


Il modo migliore per affrontare il nostro tempo e i suoi problemi è viverli come una sfida: tentativi di misurarsi con il nuovo che avanza. La parola “sfida” potrebbe così sostituire le lamentazioni più ricorrenti come: “crisi, emergenza, rischio, smarrimento…”.

La perdita degli ideali e la diffusione dell’individualismo, che insegna a badare a se stessi, hanno portato molte famiglie ad abbandonare l’educazione centrata sui valori, su ciò che è ritenuto giusto e non soltanto conveniente e gratificante. Educare, prevedere per i figli tappe di crescita progressive, si può, anche oggi, in una società sempre più plurale. I giovani non sono insensibili al fascino dell’educazione, perché i suoi risultati sono convincenti. La sfida dell’educazione, è la sfida della fiducia nella vita. Essa richiede però un metodo. I valori non si danno mai allo stato puro, sono “ciò che ancora non c’è”. Esigono quindi l’impegno, la fiducia e la collaborazione di tutti. I valori richiedono tempo, orientano al futuro, creano l’inedito. La sfida che ci attende sono quindi i valori: la ricerca di ciò che rende la vita degna di essere vissuta. L’appello generico alla speranza e il riferimento astratto agli ideali indipendenti dalle loro forme storiche, non sono utili perché impraticabili e percepiti come utopia inaffidabile.

La sfida realistica poggia sull’esperienza, non riguarda gli orizzonti irraggiungibili dell’utopia ma il potenziale concreto delle possibilità umane. La sfida deve basarsi sui fatti, sul riferimento a condizione che possono accadere, su presupposti reali, che già avvengono nella pratica di chi raggiunge buoni risultati. Essa si fonda quindi sul racconto delle buone prassi che cittadini, famiglie, gruppi, comunità stanno tentando. Nella loro vita quotidiana, i genitori trasmettono alle nuove generazioni i codici culturali ed etici che rendono possibile la vita comune, contribuendo in modo decisivo a rinnovare la collettività. Esattamente questo significa pensare la famiglia come: “cellula della società”. D'altra parte, la domanda dei genitori di acquisire un ruolo attivo e consapevole nell'educazione dei figli è sempre più esplicita: lo dimostra la diffusione delle “scuole dei genitori”. Queste belle esperienze, non così difficili da promuovere e organizzare, non servono a fornire ricette e a dettare modelli, ma a condividere i tentativi, gli errori, i risultati prospettati, i traguardi raggiunti. Sono soprattutto occasioni per testimoniare entusiasmo e voglia di reagire al pessimismo, per provare insieme a organizzare la vita attorno a progetti di senso.

La maggiore consapevolezza educativa dei genitori può, senza dubbio, avere un impatto decisivo sulla comunità civile, aiutandola a maturare nuove sensibilità e a tentare sentieri inesplorati. E' importante, quindi, coinvolgere gli adulti con proposte che valorizzino le loro esperienze e i loro legami, che accolgano e promuovano, in modo autocritico, il loro sapere e le loro pratiche, che riconoscano, nell'esperienza del generare e dell'educare, non solo una valenza psicologica ma anche un significato etico, civile e spirituale.

Negli incontri organizzati dalle scuole, nei dibattiti organizzati nella società civile, nei percorsi formativi offerti dalle parrocchie, le madri e i padri partecipano e intervengono, si confrontarsi con altri, incontrano esperti e testimoni. Rompono l’isolamento delle famiglie, mobilitano le loro energie, danno parola alle varie esperienze, organizzano il confronto e l’azione comune per far crescere la qualità della vita, non solo delle famiglie, ma di tutta la comunità, in cui esse sono inserite. Attraverso forme di genitorialità organizzata, diventa possibile immettere nella società i valori vissuti in famiglia e renderli pubblici, per contrastare l’egemonia del mercato, per arginare la desertificazione delle relazioni umane che avanza. Ogni sfida genera un flusso ad alto contenuto emozionale, che Moscovici chiamava “effervescenza”. Questo movimento ottimista favorisce il massimo di apprendimento e di generatività. Le madri e i padri non vanno quindi considerati separati o estranei al territorio in cui abitano, ma soggetti attivi in interazione con altre presenze, così come il territorio non va preso in considerazione a prescindere dalle famiglie. Il bisogno di comunità è, in fondo, ricerca d’identità personale e collettiva. È facile riconoscere che ognuno è frutto di esperienze fatte in famiglia, tra i banchi di scuola, nella rete di conoscenze, nei gruppi, dove nasce quel senso del noi, senza il quale non si sviluppa l’idea di comunità. Le “abitudini del cuore”, di cui parlava Bellah, non sono altro che i buoni costumi che rendono praticabile la libertà.

Per affrontare le sfide ci vuole uno sguardo ottimista: pur in mezzo ai (pochi ma chiassosi) apocalittici e buonisti, sono tanti quelli che cercano di fare fronte in modo dignitoso ai compiti familiari, anche se spesso tendono a vivere silenti nel proprio mondo, già così difficile da condurre. Questo problema tuttavia si può affrontare, esercitandosi a parlarsi in gruppo e in pubblico. È una buona scuola: gli adulti in maggioranza hanno smesso i panni autoritari nel confronto con i loro figli ma sono ancora inesperti nel dialogo intergenerazionale. Ai comportamenti arbitrari e autoritari, giustamente inaccettabili, deve succedere non il vuoto educativo, ma la costruzione di una nuova autorevolezza fondata su relazioni di fiducia e di autostima, sulla pazienza e sull’ottimismo, attraverso l’ascolto e il riconoscimento reciproco. La questione dell’emergenza educativa, infatti, è una questione pubblica. L’educazione è una cosa della comunità. Se rimane privata, finisce nell’insignificanza.

 

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