Osservando i nostri tempi
- Domenico Cravero
- 2 lug
- Tempo di lettura: 3 min
La presenza pubblica della generazione Z
di Domenico Cravero

Maturare in età significa: “fare mio ciò che mi ha fatto essere”, riconoscendo il debito simbolico della vita e il legame con chi mi ha fatto essere. Il riconoscimento del debito è la prima condizione per il riscatto. La riscossa dei giovani può essere la risposta, umanamente feconda, della restituzione e dell’affrancamento dei “privilegi” di essere nati in una società in “pace” e nel “benessere”. Le più importanti risorse disponibili sono le capacità personali (come hanno evidenziato A. Sen e M. Nussbaum). Le nuove generazioni ne sono particolarmente attrezzate.
Rimane però molto da fare, da immaginare, da inventare
La robotizzazione e l’intelligenza artificiale dell’industria 4.0 aprono nuovi scenari, ancora in gran parte da individuare e sperimentare. Il web è una rivoluzione editoriale, di ampiezza incommensurabile, a una velocità inaudita, che tocca il cuore della vita economica. Si aprono quindi enormi potenzialità per il sorgere di un nuovo spazio pubblico di partecipazione sociale ed economica. Con il numerico sono possibili forme mai prima immaginate di economia collaborativa e contributiva. Le innovazioni digitali generano principalmente valori qualitativi e immateriali (più che beni fisici), che non hanno lo status di merce monetizzabile. Presi, affascinati dal crowd (mondi di persone connesse via web), si è subito diffusa un’esplosione di nuove parole: crowdsourcing (tutto ciò di cui hai bisogno lo puoi domandare e troverai sempre risposte disinteressate e sincere), crowdfunding (se hai dei buoni progetti, potrai trovare anche i fondi), crowdworking (possiamo lavorare insieme, su progetti comuni, in qualunque parte del mondo, senza intermediari), crowdflower (possiamo trovare e fornire soluzioni e servizi comuni).
Neet e freeters
In contrasto con queste straordinarie opportunità, alcuni fenomeni preoccupanti della nuova condizione giovanile denunciano invece una diffusa perdita di fiducia e di speranza. Giovani neet sono quelli che hanno rinunciato sia allo studio, sia alla ricerca di un’occupazione. I freeters scartano l’idea stessa di un’occupazione permanente e non intendono investire in alcuna professione. Altri rifiutano le relazioni sociali, si chiudono in casa e il loro mondo si limita al web e al virtuale. L’emergenza speranza è entrata anche nella teoria sociale che oggi s’interroga su alcuni tratti narcisistici dell’attuale adolescenza, sull’inazione di parte della popolazione, sulla sfiducia collettiva, procurata anche dall’apparente mancanza di alternative al capitalismo globale e al neoliberalismo.
Ci vuole una pedagogia dell’impegno e una pratica educativa alla cittadinanza attiva, nelle scuole, negli oratori, nella vita sociale. I giovani hanno bisogno di occasioni per mettersi alla prova. Ci vuole anche una rete di gruppi e di territori che s’impegnino a condividere e confrontare le esperienze, a mobilitare le risorse, a “organizzare” la speranza (cooperative di lavoro, stage formativi, mobilitazione dei ragazzi attraverso la musica e lo spettacolo, racconto del dramma sociale mediante il rap).
Ammirare le risorse dei ragazzi
Molti giovani si trovano in una profonda situazione di “orfanezza” (Papa Francesco) perché sono sempre meno, poco riconosciuti e sfavoriti nel loro inserimento sociale. È necessario quindi sviluppare e potenziare molto di più la capacità di accoglienza da parte della comunità. L’azione sociale, infatti, sarà davvero popolare, quanto più diventerà aperta, ampia e capace di incontrare chi ha risorse e condizioni diverse. Accettare di essere “popolare” è però un processo lento e paziente, fiducioso e instancabile. Per raggiungere questo obiettivo i giovani hanno bisogno di eventi che li aiutino a esprimersi, emozionarsi e sentirsi attivi. E questo davanti ad adulti che riconoscano e ammirino le risorse dei ragazzi. Le pratiche performative, infatti, scuotono le persone dal torpore individualistico e dal disimpegno: fanno sperimentare un’esperienza come propria, coinvolgono in un evento che le riguarda, realizzano non solo il valore della propria vita ma anche di quella dell’altro. Un atto performativo produce, fosse anche solo per un momento, la sensazione di essere “al presente”. La performatività è un atto responsabile, perché l’esito dell’esperienza estetica è vedere “amorevolmente”. Nella visione estetica si considera un essere umano non perché “amabile” ma piuttosto lo si rende amabile perché considerato.













































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