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"Nessuno vi crederà". Il dramma che si vive ogni giorno a Gaza

di Stefano Marengo


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Si può combattere per la democrazia di Israele ma collaborare con la sua persecuzione dei palestinesi? Questo è la domanda che dà la direzione di marcia, quasi come il prologo di una tragedia scespiriana, al commento pubblicato on line oggi, 22 luglio, su Haaretz. A firmarlo è Aluf Benn, giornalista di vertice del quotidiano di Tel Aviv. Il suo intervento è l'ultimo grido, in ordine di tempo, dell'angoscia che si è insinuata visceralmente nei cittadini dello Stato di Israele, di cui una parte - non sappiamo se maggioritaria - sa mostrare coraggio e lucidità nel prendere non soltanto le distanze dall'orrenda e melmosa guerra nella Striscia di Gaza giunta al suo 655° giorno, ma di spingersi ad analizzare ontologicamente ciò che di etico e morale potrà ancora sopravvivere nella loro comunità. A cominciare proprio dalla democrazia che Netanyahu e i suoi complici ha reso una larva cui si nega, però, una metamorfosi per salvare il popolo palestinese, orribilmente mutilato nei suoi diritti, esattamente come accadde a quello ebraico nel Novecento. Ma questo, come osserva Stefano Marengo nel suo articolo, non è l'unico tratto in comune.

La Porta di Vetro



"Non sopravviverete. E se anche qualcuno di voi si salvasse, nessuno gli crederebbe, perché noi distruggeremo tutte le prove". Questa frase - che cito liberamente da I sommersi e i salvati di Primo Levi - è lo sbeffeggio che gli sgherri nazisti rivolgevano agli internati nei lager e che ricorre quasi ossessivamente in centinaia di testimonianze di sopravvissuti dell'Olocausto.

Fortunatamente questa oscena profezia non si realizzò. Quando l'Armata Rossa liberò la Polonia - dove erano situati quasi tutti i campi di sterminio - le prove che i nazisti in fuga avevano lasciato dietro di sé erano tali e tante che quasi non ci fu bisogno della testimonianza dei superstiti per ricostruire ciò che era accaduto. E tuttavia, nonostante questo, il trauma subito dagli internati fu tale che molti di loro vissero il resto della loro esistenza nell'angoscia di "non essere creduti". Un timore irrazionale, si dirà, ma un timore che rivela qualcosa di tremendamente reale e che solo oggi, forse, possiamo capire. 

Nel 1948, anno dell'inizio della pulizia etnica della Palestina, il primo ministro israeliano Ben Gurion, ragionando sul destino dei palestinesi, disse lapidariamente che "i vecchi moriranno e i giovani dimenticheranno". Anche questa profezia non si è avverata, e di generazione in generazione il popolo palestinese ha tramandato la "memoria dell'offesa" e le ragioni della sua lotta di liberazione. Eppure - ecco il punto - i palestinesi non sono mai stati creduti, o meglio la loro storia ha trovato una qualche forma di riconoscimento soltanto quando altri - di solito dissidenti del progetto coloniale sionista - hanno iniziato a dar loro una voce. 

Sin dagli anni Cinquanta studiosi e intellettuali palestinesi - da Walid Khalidi a Ghassan Kanafani a Edward Said, per menzionare solo i più noti - hanno ricostruito nel dettaglio la pulizia etnica del '48, hanno raccontato la violenza dell'occupazione e della colonizzazione, hanno denunciato il regime di apartheid a cui il popolo palestinese era sottoposto da parte di Israele. Per decenni non sono stati creduti, la loro sofferenza non è mai stata riconosciuta, i loro diritti sono stati continuamente negati. 

Le cose sono iniziate a cambiare solo negli ultimi trent'anni, e non certo perché, improvvisamente, i potenti del mondo avessero deciso di ascoltare la voce dei palestinesi, ma perché intellettuali e organizzazioni israeliane antisioniste o non sioniste hanno incominciato a raccontare la Nakba del '48 e la Naksa del '67, la Guerra dei sei giorni come progetto espansionista e coloniale e l’occupazione militare come regime di oppressione e apartheid. Solo a quel punto, e solo perché a parlare non erano voci palestinesi, le verità che i palestinesi stessi raccontavano da decenni hanno acquisito una forma di dignità pubblica, un diritto all'ascolto. Ma, si badi bene, si tratta pur sempre di un diritto mediato, perché ancora oggi, se a parlare è un palestinese, il clima che lo circonda è carico di diffidenza, se non proprio di scoperta ostilità. 

Per essere chiari, noi tutti dobbiamo essere grati a quegli studiosi israeliani che osano parlare il linguaggio della verità: penso su tutti al grande storico, oltre che persona di immensa umanità, che è Ilan Pappé. Ma il punto - e sono certo che proprio Pappé lo sottoscriverebbe - è che, nonostante tutto, ai palestinesi viene ancora negato il diritto e la responsabilità di raccontare sé stessi e di essere ascoltati. Non sono ritenuti soggetti, ma solo oggetti di storia o, detto altrimenti, per un pregiudizio interessato e radicato in cui consiste il vero razzismo, sono considerati incapaci di verità sulla loro stessa storia. 

Ciò che sta accadendo a Gaza ne è l'esempio più cristallino. Benché i nostri apparecchi tecnologici siano invasi da immagini di distruzione totale e di carneficine raccapriccianti, benché giornalisti, medici e un'infinità di altre persone testimonino (e muoiono) l'orrore quotidiano del genocidio e della pulizia etnica, i palestinesi continuano a non essere creduti. Il che peraltro dimostra che i nazisti avevano torto almeno su un punto: il genocidio può essere negato anche in presenza di prove evidenti, anche quando chi lo sta commettendo trasmette in diretta streaming le sue azioni di sterminio. 

E così non si possono evitare sentimenti contrastanti quando, ancora in questi giorni, abbiamo dovuto constatare che la parola dei palestinesi, per essere presa in considerazione, deve essere certificata da testimonianze terze. Penso naturalmente al lungo editoriale uscito di recente sul New York Times in cui Omer Bartov, come prima di lui hanno fatto diversi altri studiosi israeliani ed ebrei di storia della Shoah, riconosce che quello in atto a Gaza è inequivocabilmente un genocidio. 

Solo queste voci riescono talvolta a "bucare" una narrazione politico-mediatica che in Occidente è dominata dai più triti luoghi comuni, da una intenzionale superficialità, da malcelate giustificazioni dei crimini israeliani e dalla colpevolizzazione dei palestinesi, vite di scarto prive di diritto di tribuna nei consessi in cui si discute il loro stesso massacro. 

"Non vi salverete. E se qualcuno dovesse scampare al suo destino, nessuno vi crederà". Questo dileggio rimbalza da uno dei punti più oscuri della storia e arriva fino a noi, non privo, per giunta, di un supplemento ulteriormente scabroso: "vediamo quotidianamente quello che vi sta accadendo, ma non vi crediamo". Ecco quello che l'Occidente, a partire dalle sue classi dirigenti, sta dicendo ai palestinesi. 

Dobbiamo prendere atto, allora, che non c'era davvero nulla di irrazionale nell'ossessione del "non essere creduti" di molti sopravvissuti allo sterminio nazista. Nel loro intimo, forse, avvertivano che anche le prove materiali di un genocidio, per quanto evidenti, possono diventare non conclusive, essere spazzate via da un discorso che adultera la realtà, che la ritaglia a misura dell'ideologia degli aguzzini, che non riconosce la sofferenza, che non accorda alcun diritto di parola a chi la patisce, che non crede alla capacità di verità delle vittime. 

Questo è il punto in cui siamo. In cui siamo caduti. Il genocidio palestinese è sostanziato dalla bancarotta morale dell'Occidente. È una catastrofe che ci sta trascinando in luoghi sempre più bui, come una spirale infinita. Per interromperla non sono sufficienti gesti simbolici o la protesta, indispensabile e necessaria, contro la complicità dei nostri governi. No. Quello che dobbiamo pretendere è che la voce dei palestinesi sia ascoltata, e con ciò che sia riconosciuto il loro diritto alla verità, il loro diritto di essere creduti. Il loro diritto alla dignità, a riscattare un futuro che solo loro sono titolati a scegliersi.

Questa è l’unica via per restituire al mondo una prospettiva di giustizia. Se ciò non accadrà, lo sterminio non avrà mai fine, e il fiume di sangue che oggi scorre a Gaza finirà per sommergere tutta l’umanità, rendendo ancora più oscuro l’abisso in cui già ci troviamo.

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