Osservando i nostri tempi
- Domenico Cravero
- 22 ore fa
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Come si fa vivere nella pienezza l'adolescenza
di Domenico Cravero

Davanti alle tragedie, quando le cose non funzionano secondo il copione stabilito o atteso, si dà il via alla lamentela dei genitori assenti, delle famiglie indifferenti, della “società senza padre”. Il compito educativo non può però pesare solo sui singoli genitori, perché viviamo in una comunità: non si dice sempre che “Per crescere un bambino ci vuole un villaggio? Le famiglie non vanno considerate estranee ai mondi in cui abitano perché sono soggetti attivi in interazione con le altre presenze istituzionali. Il territorio, similmente, non va preso in considerazione a prescindere dalle famiglie.
Occorre considerare con attenzione, senza riduzioni della complessità, i comportamenti violenti, soprattutto degli adolescenti.
La crescita della violenza tra i ragazzi più che un’emergenza da cui difendersi, è un allarme sociale da cogliere. L’aumento della violenza può essere interpretato come delusione profonda, conseguenza di una doppia comunicazione, contraddittoria e insostenibile della cultura occidentale. Da una parte viene detto ai ragazzi: “Realizzati, cogli le occasioni! Puoi fare tutto ciò che vuoi. Tu vali!”. Dall’altra, l’ideologia scientista e un modo superficiale di intendere l’AI sembra trasmettere il messaggio contrario: “Una macchina fa meglio di te. E anche tu non sei che una fragile macchina, frutto del caso e vincolata alla necessità. Puoi fare ciò che vuoi, poiché nulla ha significato. Tu vali niente”.
Gli adolescenti invece sono alla ricerca di un senso che li faccia vivere in pienezza (a loro modo, se pur deviato, lo sono anche le gang). Si può uscire da quella contraddizione, dimostrando stima e fiducia nei ragazzi, ritenendoli capaci di innovazione e creatività. Nella vita concreta però l’Io è riportato costantemente alla realtà: il limite, l’insufficienza, l’ostacolo. Sperimenta rifiuto, frustrazione, abbandono. Si genera l’oscura esperienza dell’angoscia, che trasforma in dinamiche distruttive il potenziale di crescita. Appare la realtà temuta del non-amore, del non-senso esistenziale, subito rimossa. Questa, tuttavia, riemerge nel quotidiano in due possibili percorsi: la depressione (la resa dell’Io) e la violenza (il rifiuto della realtà). L’agito aggressivo è una difesa estrema per l’Io. La debolezza interiore si riveste di forza e prepotenza. Da solo però l’Io non può trovare giovamento alcuno: più cerca di liberarsi, più sprofonda.
Una socializzazione sempre più povera
La soluzione viene dall’esterno: un ambiente affettivo, vero e stabile familiare ma non solo, il valore dell’altro, l’affidabilità dell’autorità aiutano ad assorbire anche le temporanee cadute regressive dell’Io che si ribella. Questi sostegni naturali alla crescita personale oggi sono tutti in crisi. Le nostre menti sono diventate più fragili; sono sempre più numerosi gli eventi che immediatamente qualifichiamo come “assurdi” (la mente è il cervello forgiato dalla comunità). Siamo sottoposti a una costante cattura dell’attenzione per la continua esposizione agli schermi e siamo diventati più smemorati e distratti, anche sul lavoro. Gli amici sono più rari e la socializzazione tra presenti più povera; non siamo fatti per vivere così. Sottoponiamo il corpo al disordine e lasciamo i ragazzi a una precocità a cui non sono preparati; siamo irresponsabili.
La tenuta psichica è garantita dall’equilibrio tra personificazione e socializzazione: sostegni allo stesso modo importanti ma da comporre dialetticamente. La personificazione rende gli individui unici, ne fa delle persone. La socializzazione obbliga invece a misurarsi con gli altri. Superare le prove, apprendere competenze, assumere un ruolo e vederlo riconosciuto, sono altrettante tappe della socializzazione. I giudizi che si ricevono nel contesto vitale e sociale in cui si vive e si agisce, a proposito di come ci si presenta agli altri e dei risultati che si ottengono nel confronto e nella competizione sociale (i voti a scuola, i risultati sportivi, la simpatia nelle compagnie), contribuiscono a fondare e alimentare l’autostima. In una società individualista e sommamente competitiva, dove si è in tanti, sempre sotto osservazione, costantemente messi a confronto a partire dagli aggettivi che si ostentano (e non dal valore personale), la socializzazione è particolarmente onerosa, sempre minacciosa e incerta.
Il rischio del "successo" come unico metro di misura
I risultati conseguiti (a scuola, sul lavoro, nello sport) fanno anch’essi sentire unici, così come l’orgoglio della vittoria e della forza, e la sicurezza dei “titoli” stimolano la desiderabilità e l’invidia. Il successo della competizione si alimenta dall’aspettativa che la socializzazione confermi la persona al pari dell’amore, il cui “costo” è più alto (si basa sul dono) e la gratificazione non sempre istantanea.
La conferma che deriva dal successo, però, è di natura opposta a quella operata dalla sicurezza affettiva. I risultati raggiunti non sono mai sicuri: domani un altro, più intelligente, più bello, più giovane, più ricco… potrà sostituire il primato. Nulla è più incerto degli aggettivi, che possono essere costantemente messi a confronto e misurati con un più o un meno. Solo la persona amata è unica.
La società illude ma non mantiene le promesse. Non può esistere tuttavia una persona senza comunità, alla quale relazionarsi e nella quale dare e ricevere fiducia. Nulla sarebbe, infatti, più intollerabile che fallire la ricerca della felicità, che viene dalle persone non dalle cose. Si può rispondere alla crescita della delusione che scatena violenza attraverso azioni mirate, che nascono nella cultura della partecipazione e della condivisione.
Siamo tutti coinvolti: l’indifferenza è una colpa; provare a nascondere un comportamento sbagliato equivale a esserne responsabili; non impedirlo, se possibile, è come compiere il gesto.













































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