Psicopatologia e immigrazione, la scelta dell'approccio sistemico
- Mariella Fassino
- 3 nov
- Tempo di lettura: 14 min
Attualità del lavoro dello psichiatra Vincenzo Maggiulli
di Mariella Fassino

Sono trascorsi 15 anni dall’intervento congressuale al 2° Congresso del Mediterraneo SIPPR (Società Italiana di Psicologia e Psicoterapia) del collega psichiatra Vincenzo Maggiulli che svolge la propria attività professionale a Brindisi, città di affaccio sul mare della nostra civiltà e delle moderne vicissitudini di migliaia di migranti. L’esperienza competente e appassionata dello psichiatra nei centri CARA (Centro di accoglienza per i Richiedenti Asilo), CIE (Centro di Identificazione e Espulsione) e il DSM (Dipartimento di Salute Mentale) dell’ASL di Brindisi ci mostra che in questi anni i problemi sono rimasti gli stessi e, come afferma Nicola Rossiello nell’articolo su La Porta di Vetro del 21 ottobre “hanno come verità dominante a lungo nascosta il fatto che la detenzione amministrativa in Italia è costruita su un vizio di legittimità che calpesta la dignità umana e il diritto alla salute” [1]
Nell’intervento, lungo, ricco di riflessioni direttamente attinte dall'esperienza sul campo, si racconta, in modo non ideologico ma umano, come l’istituzione, il singolo professionista, le équipe degli operatori si possano approcciare al problema dei migranti nei centri di detenzione amministrativa attraverso la relazione e l’ascolto. Il disagio di queste persone si esprime con condotte, atti, atteggiamenti che spesso sono recepiti dalle istituzioni e dai loro operatori come sintomi psicopatologici a cui dare risposte speculari e bidimensionali. Hai l’ansia, ti somministro un ansiolitico; sei agitato e aggressivo, hai voglia di spaccare tutto, rincaro la dose con un antipsicotico; ti ferisci, ti fai male, attacchi il tuo corpo o tenti di suicidarti, aggiungo uno stabilizzatore dell’umore e così via.
Si tratta di un approccio pavido e acritico ai bisogni e alle richieste di persone disperate che vengono “dall’altra parte del mondo” con culture, credenze, convinzioni, superstizioni che spesso attingono al repertorio magico-soprannaturale. Un mondo che non conosciamo, da cui tuttavia proveniamo se si pensa che la superstizione ha minacciato e plasmato l’umanità nei secoli scorsi, mentre si affermava con fatica il pensiero logico-scientifico e si costruivano le fondamenta della civiltà occidentale, ora tornata in profonda crisi identitaria.
Attraverso le storie raccontate dal dott. Maggiulli possiamo riflettere sulla “dimensione narrativa” di ogni incontro con i migranti, uomini, donne, bambini che arrivano nel nostro paese con un pesante carico di sofferenza che emerge da racconti per noi quasi incomprensibili. Il sintomo proposto può rappresentare il “Vaso di Pandora” delle storie di queste persone, un vaso che contiene soprusi, sofferenze, superstizione, ingiustizie, fame, ferocia che vorremo confinare oltre l’azzurro del nostro mare.
Alcuni contrappesi alla vulgata dominante che si alimenta nel “terrore dell’uomo nero” arrivano da queste ammirevoli esperienze nei CPR e dalla “società civile” che spesso vede nelle Chiese e nei gruppi di volontariato un attivismo e un impegno nei percorsi di integrazione, assenti tra i politici e gli amministratori locali. Gruppi diocesani di medici, infermieri, insegnanti, avvocati e famiglie di buona volontà suppliscono alla carenza delle istituzioni dando assistenza, ascolto, consigli, informazioni, conforto alla ricerca di una possibile complessa integrazione.
L’approccio psichiatrico sistemico-relazionale e gruppale al disagio dei migranti, non focalizzandosi sui sintomi, sempre eclatanti e spesso disarmanti, propone la relazione e il racconto delle incredibili storie personali che diventano materia di condivisione risuonando nella mente e nelle emozioni di chi si prende cura.
La lettura è impegnativa, ma vale il tempo impiegato.
Psicopatologia e immigrazione: necessità di un approccio sistemico di Vincenzo Maggiulli
"…oggi che l’altrove si può dire che non esista più, e tutto il mondo tende ad uniformarsi". Dalla presentazione di Italo Calvino, “Le città invisibili”
Questa comunicazione è frutto di un lavoro iniziato un anno fa da una convenzione tra il Consorzio di cooperative sociali Connecting People che gestisce il Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo (CARA) e il Centro di Identificazione ed Espulsione (CIE) di Restinco (Brindisi) e il Dipartimento di Salute Mentale(DSM) della ASL di Brindisi per fornire consulenze psichiatriche.
Alcune considerazioni generali.
Il flusso mondiale delle correnti internazionali di emigrazione dagli anni ’80 ad oggi si presenta come un fenomeno inarrestabile, quanto può essere inarrestabile un potente fenomeno naturale. Anche quelli all’interno degli stati pure sono imponenti. Basti pensare che negli ultimi venti anni all’interno della Cina sono migrati 1 milione di contadini al mese. Per avere un’idea della pressione demografica che può esercitare una area come l’Africa sub-sahariana si pensi che quello è un agglomerato di 800 milioni di abitanti, il 12% della popolazione mondiale, e che da lì ogni anno 800 mila persone tentano di entrare in Europa. E si tratta solo di una piccola parte del flusso migratorio.
Di una piccolissima quota di questo enorme flusso di migrazioni l’Italia è testimone prima come terra di emigrazione per 80 anni, da fine ‘800 alla fine degli anni ‘60 del ‘900, e poi come terra di immigrazione dagli anni ‘70 ad oggi. Oggi siamo a quota 4 milioni di immigrati: 1 milione di loro sono irregolari.
Anche noi a Brindisi, storica terra di frontiera il cui stesso santo patrono, san Teodoro, è straniero e ”vuole bene agli stranieri” secondo un detto brindisino, abbiamo assistito ai loro passaggi nei nostri punti di osservazione. Agli inizi degli anni ‘90 albanesi, poi slavi, quando sono esplose le guerre balcaniche dell’unificazione europea, poi mediorientali che fuggivano dalle guerre del golfo persico e adesso africani che fuggono dalle guerre e dalle persecuzioni. Africa, Iraq, Palestina, India, Pakistan, Afghanistan sono attualmente le aree di provenienza più frequenti di immigrati.
Abbiamo dovuto porci il problema di incontrare gli immigrati tenendo conto della loro cultura. Nella nostra scuola sistemico-relazionale Ancora, Andolfi, Losi e Telfener (in rigoroso ordine alfabetico) hanno dato sull’aspetto della comprensione culturale ed empatica degli immigrati un contributo scritto basilare: i loro scritti ci hanno aiutato mantenere un approccio ai problemi degli immigrati che non fosse di tipo psichiatrizzante. Quando nella prima metà degli anni ‘80 iniziai il Training di Terapia Familiare all’Istituto di via Reno a Roma, dove adesso c’è la scuola di Carmine Saccu, nel gruppo c’era un buon numero di medici che lavoravano con pazienti psichiatrici (cosa che poi è diventata sempre più rara). Ebbene, allora Maurizio Andolfi ci invitava a “dimenticare la psichiatria” se volevamo fare psicoterapia familiare. “Dimenticare la psichiatria…” Allora io non avevo ancora completato la mia formazione e la mia esperienza psichiatrica, quindi non potevo dimenticare ciò che non avevo appreso. L’ho potuto fare dopo, grazie alla formazione psicoterapica che avevo ricevuto.
Ben consapevole del rischio sotteso al ruolo di consulente psichiatra, per averne già avuto esperienza nella consultazione ospedaliera e carceraria, ho accettato di fare il consulente in un CARA e in un CIE. Luoghi questi chiusi, ristretti, costrittivi e temporanei, come del resto l’ospedale e il carcere. Istituzioni totali le avrebbe definite Goffmann. Altresì definibili come Centri di Detenzione Amministrativa.
Lavorare con compiti di aiuto in tali strutture mette subito di fronte ad una doppia barriera: la barriera che c’è normalmente tra noi e lo straniero e la barriera che si forma tra chi sa che tu sei inaffidabile perché rappresenti lo Stato che ti vuole mandar via e te che hai di fatto quella funzione.
La presenza di queste barriere è pesantemente percepita da entrambi. Si tratta di lavorare con la consapevolezza che il pregiudizio determinato da tale barriera deve in primo luogo essere superato da parte nostra quando c’è un segnale da parte loro.
Qualche volta il segnale è espresso in termini di sintomi psichiatrici e questo può essere un problema. Attenzione infatti: quando un sintomo psicopatologico si forma dentro ad una struttura chiusa (ospedale, carcere, CARA, CIE), spesso in emergenza, è un momento delicatissimo perché c’è il rischio che si perda la storia delle persone che strutturano quei sintomi, c’è il rischio che si perdano i nessi di quella storia con la sofferenza, c’è il rischio che scompaia la storia ed emergano i sintomi, le sindromi, il DSM IV e il piano terapeutico psicofarmacologico come unica risorsa terapeutica.
All’inizio sono stato, gioco forza, il terminale passivo di richieste di intervento psicofarmacologico addirittura provenienti dagli stessi ospiti, soprattutto dagli ospiti del CIE per i quali i vissuti di fallimento con frustrazione ed espressione di rabbia sono frequenti. In seguito, proprio per aver accettato la delega psichiatrica, spinto dalla insostenibilità della mole di richieste di consulenze psichiatriche urgenti, mi sono ricordato di essere un medico di formazione relazionale sistemica e ho potuto assumere la mia centralità nella rete per facilitare un approccio diverso. A quel punto mi è sovvenuta la raccomandazione di “dimenticare la psichiatria” di Maurizio e mi sono andato a rileggere i contributi degli autori che ho ricordato. Ho quindi chiarito a me stesso che:
1) La teoria sistemica include tutto, non esclude nulla; può comprendere sia la psichiatria scientifica che l’approccio etnopsichiatrico.
2) La pratica della teoria sistemica, per usare un linguaggio analogico-metaforico, è come “un imbuto alla rovescia”: ciò che entra ristretto esce poi allargato. (Il concetto è di via Reno). È una epistemologia che va dal generale al particolare per cogliere il particolare nel suo nesso con il generale. Secondo la teoria dell’imbuto alla rovescia la psichiatria restringe, la sistemica allarga: il sintomo entra psichiatrico ed esce sistemico.
3) È fondata su una pratica di gruppo che impone di dover attraversare i sistemi ( la famiglia, la comunità) per poter arrivare ai suoi membri, alle persone, agli individui
4) Include se stessi nel processo di osservazione. Consente di connettere figure professionali diverse in contesti diversi e di assegnare loro una funzione coterapeutica, non di intralcio al terapeuta. Consente di permettere a ciascuno del gruppo di svolgere una funzione importante nella terapia.
5) Impone di provare curiosità per le storie dei pazienti, non solo per i loro sintomi, e di offrire loro ascolto, vicinanza, intensità.
6) Mette in condizione di diagnosticare non sintomi e sindromi, ma di diagnosticare una “empasse” evolutiva, uno stallo omeostatico non solo nel paziente rispetto alla sua concezione evolutiva, ma anche nel gruppo degli operatori e in se stessi.
7) Consente di comprendere e di gestire appropriatamente il rischio iatrogeno psicoterapico e psicofarmacologico.
8) Consente di costruire in comune ipotesi, senza deleghe a qualcuno in particolare, e di assumersi la responsabilità di condurre le opportune verifiche. L’approccio gruppale consente più narrazioni possibili dello stesso evento e dello stesso sintomo, come scrive Losi, e rappresenta un vantaggio se si vuole rinunciare al modello psichiatrico per come lo conosciamo noi in Europa e in USA come unico strumento.
9) Consente di lavorare strategicamente sulle risorse residue dei pazienti, degli operatori e di coloro che sono presenti attivamente nella comunità.
Non è stato difficile coinvolgere le psicologhe, le assistenti sociali, le interpreti, le mediatrici culturali: non a caso il loro consorzio si chiama Connecting People e la loro rivista si chiama “Storie di questo mondo”.
È stato più difficile invece coinvolgere i medici, tranne uno relazionale non per formazione, ma per carattere, gli infermieri e gli agenti di Polizia e della Guardia di Finanza, ma più per il loro ruolo di controllori di istituzioni totali che per la loro reale propensione.
Si trattava di non ragionare più in termini di sintomi psichiatrici e di terapia psicofarmacologica, ma di fare rapporto con il gruppo e di raccogliere storie insieme.
Si trattava di superare insieme la scontata diffidenza dei richiedenti asilo (avremmo potuto riferire alla commissione ministeriale dettagli utilizzabili contro di loro); si trattava di superare insieme la tendenza degli ospiti del CIE a simulare per ottenere vantaggi tipo ricoveri in ospedale da cui poter evadere o a strutturare disturbi fittizi per regredire nel ruolo privilegiato di malati.
Si trattava di non sentirsi impotenti o di non reagire di fronte alla loro tendenza ad esprimere frustrazione e rabbia verso di noi.
Si trattava di diventare curiosi delle loro culture, di andare a studiare Geografia, Storia, Geopolitica, Etnografia ed Etnologia, Antropologia, si trattava di nutrire curiosità per la loro identità di radice e anche per la loro voglia o esigenza di identità di cittadinanza come le chiama Ancora. Questo tipo di indagine costituisce la porta di ingresso ai problemi di natura psicologica e psicopatologica degli immigrati soprattutto africani (uso il concetto di Roberto Beneduce). Usando questa porta di entrata incominciano ad assumere tutta un’altra collocabilità insonnie ostinate, stati depressivi, allucinazioni somatiche, allucinazioni complesse, deliri.
Tutti maschi, tutti compresi fra 18 e 26 anni, molti di loro resilienti, frutto di una selezione sociale, esito darwiniano di un terremoto sociale dove sopravvivono i più forti e i più fortunati. Altri, meno numerosi, resi fragili dalle loro tragiche e traumatiche storie di emigranti richiedenti asilo o di immigrati senza permesso di soggiorno. La percentuale di casi psichiatrici nel CARA è dello 0,5-1%, molto basso rispetto ad una qualsiasi popolazione generale.
La percentuale di casi psichiatrici nel CIE è invece del 15%! 10 volte superiore alla popolazione generale: è la stessa epidemiologia che troviamo in carcere, arricchita da simulazioni e da disturbi fittizi. Per la psichiatria i disturbi fittizi sono veri e propri sintomi psichici o fisici prodotti intenzionalmente, ma inconsapevolmente rispetto ad un qualsiasi scopo, per assumere il ruolo di malato.
In un CIE forse il ruolo di malato consente di meglio tollerare la condizione costrittiva e afflittiva veramente pesante, anche se solo transitoriamente.
Fu “dimenticando la psichiatria” che capimmo che la depressione inibita di Seydi (roba da 300 mg die di bupropione) appena 18 enne, piccolo di statura, di carattere modesto e riservato, di bei lineamenti, si era strutturata perché lui parlava solo il dialetto del popolo peul. I peul in Africa sono un popolo di 15 milioni di nomadi dispersi in tutta l’Africa occidentale che occupano la regione del Sahel, presenti in particolare in Senegal e in Nigeria. Parlano il pulaar. La Nigeria è come era la Jugoslavia prima della unificazione europea: è composta da più di 250 etnie e vi si parlano oltre 60 lingue: il pulaar è una di queste. Seydi, originario del Senegal, aveva perso l’amico, l’unica persona che, oltre al pulaar, parlava anche l’arabo, l’unica persona che lo poteva mettere in contatto col mondo nuovo: rintracciare l’amico e permetterne la ricongiunzione divenne il compito prioritario degli operatori, non più chiedere la consulenza e aspettarsi che funzionasse la terapia psichiatrica .
Fu così, dimenticandoci della psichiatria, che riuscimmo a tollerare che la terapia psichiatrica non fosse efficace per Emmanuel che allucinò per molti mesi la sorella morta nella traversata del deserto del Sahara. Con lei parlava e lei gli parlava, lui la vedeva in carne e ossa accanto a lui, soprattutto di notte, quando non era distratto dai rumori e dagli impegni del giorno). Piangeva per tutto il tempo. L’attraversamento del deserto che univa l’Africa occidentale sub-sahariana (Nigeria in questo caso) ai paesi del Maghreb da cui era poi possibile raggiungere la Sicilia era un passaggio obbligato quanto insidioso e letale. Lì Emmanuel vi aveva perso la sorella in circostanze tragiche. Capimmo che non era una questione di terapia psicofarmacologica e smettemmo di porci problemi di un suo potenziamento per ottenere una maggiore efficacia.
Fu così che Kennedy 23enne nigeriano che presentava tristezza, insonnia con incubi e facilità al pianto riuscì a non ricevere antidepressivi perché riuscì a rivelare di essere vittima di una maledizione attribuitagli da un oracolo in cui credeva. L’oracolo gli aveva detto che sarebbe stato necessario sacrificare una parte del suo corpo, il pene, e che avrebbe dovuto andare con gli uomini. Lui andò con degli uomini e fu per questo arrestato e cacciato dal suo villaggio. In Nigeria l’omosessualità è un reato. Quando andava con gli uomini lui si sentiva posseduto dagli spiriti, non riusciva a controllare il proprio comportamento che era guidato da loro, gli spiriti. Non si sentiva omosessuale, ma spinto ad esserlo da entità più forti di lui. Temeva che potesse succedergli anche in Italia nel centro di accoglienza di cui era ospite o fuori in città quando usciva. L’ approccio fu solo psicologico. Dopo alcuni mesi Kennedy accettava più egosintonicamente una identità di genere omosessuale anche se continuava a temere che la maledizione affiorasse e lo spingesse ad abusare di adolescenti … Abbiamo dovuto riflettere sulle determinanti culturali nella costruzione e nella acquisizione delle specifiche identità di genere che non sono dappertutto le stesse.
Fu così che scomparve da sotto alla pelle di Cyril quella entità misteriosa che tanto dolore gli procurava quando penetrava nel suo intestino per poi tornare ad affiorare visibile solo per lui sotto la pelle.
Fu così che scomparve la depressione e l’insonnia e la paura apparentemente paranoide di Amadi, yoruba animista del sud ovest nigeriano, che temeva che i poteri del capo della comunità lo potessero raggiungere anche in Italia e determinarne la morte, come era già avvenuto al suo villaggio per il fratello maggiore per il quale il capo della comunità aveva decretato la morte sacrificale e come era già avvenuto per il secondo fratello morto durante la traversata del Sahara. Abbiamo dovuto noi stessi recuperare un pensiero magico per provare una empatia altrimenti impossibile con questi giovani africani imbevuti di cultura animista. I mondi magici irrealistici degli africani sono assurdi per noi, ma reali per loro. Per non rischiare l’incomprensione abbiamo dovuto riscoprire, se mai lo avevamo conosciuto prima, un pensiero tradizionale che era dei nostri nonni, un modo di pensare nel quale la malattia psichica è la rottura di un equilibrio fra il singolo e la comunità, non l’esito di una disfunzione neuronale. Abbiamo dovuto farlo in un’epoca in cui sono già almeno due le generazioni educate alla medicina scientifica e all’individualismo radicale. A proposito del modo di pensare magico dei nostri nonni, nel 2000 è stato edito in Italia un libro di Michele Risso del 1964 con il titolo di “Sortilegio e delirio” e con il sottotitolo “Psicopatologia delle migrazioni in prospettiva transculturale” su casi di emigranti italiani in Svizzera, lì lavorava Risso, affrontati allora come oggi noi cerchiamo di affrontare i deliri a tema magico e di influenzamento degli africani.
Gli Africani di oggi in Italia erano gli Italiani di ieri in Svizzera! Il Corno d’Africa è un bacino di profughi che si riversano in massa nell’Africa stessa; anche da questa regione solo una piccola parte arriva in Europa. Hassan, somalo, dopo aver per molto tempo detto soltanto che non riusciva a dormire, non riusciva a dormire, non riusciva a dormire… riuscì infine a raccontare l’orrore dei massacri della sua famiglia a cui era riuscito a sopravvivere e ad avere qualche notte di sonno dopo che per settimane i più potenti ipnoinducenti non avevano avuto effetto.
Questi e tanti altri interessantissimi casi saranno oggetto di analisi più dettagliate in un prossimo convegno organizzato dal DSM e da Connecting People.
Sta di fatto che così facendo siamo riusciti a “dimenticare la psichiatria” e io come psichiatra, aiutato da tutti gli altri, sono riuscito ad evitare di accettare una delega impossibile da portare a termine, impossibile da onorare.
L’intercettazione in chiave psicologica sistemica, dove lo stesso sintomo viene visto da persone diverse che raccontano storie diverse dello stesso accadimento, come nel film Rashomon di Kurosawa, di qualsiasi richiesta connotata psichiatricamente da chicchessia (paziente, infermiere, medico, agente di polizia, etc.), ha consentito di neutralizzare la sofferenza che stava dietro a quei segnali psichiatrici. Neutralizzare la sofferenza è lo scopo per il quale l’approccio psicologico e lo sforzo psicoterapeutico hanno un senso. La definizione dell’insonnia, dell’ansia, dell’inquietudine, del turbamento psichico e fisico, dell’aggressività non può e non deve essere incanalata subito e facilmente sui binari della psichiatria e della risposta psicofarmacologica: sembra una banalità, ma nelle istituzioni totali e nell’emergenza è difficile mantenersi coerenti rispetto a questo. Anche perché “straniero” non è solo bello e buono e con alcuni di loro, in contesti come un CIE per esempio, si tratta di dotarsi di una miccia lunga, molto lunga, per evitare di esplodere prima di loro.
Lo “shunt” psichiatrico, la semplificazione psichiatrica, la via breve psichiatrica è un rischio per tutti, psichiatra compreso, questo ci insegna la sistemica che nasce dalla riflessione sul quotidiano di chi lavora nelle relazioni di aiuto. Non è una astrattezza teorica. Guai allo psichiatra che gongola per avere tante richieste psichiatriche e per dare tante soluzioni psichiatriche. Guai a lui se si affeziona al potere che la società gli attribuisce, guai a lui perché è destinato al burn-out!
Abstract
Dal giugno 2008 più di 2000 persone sono transitate da un CARA (Centro di accoglienza per Richiedenti Asilo) e da un CIE (Centro di Identificazione e di Espulsione) provenienti dall’Africa subsahariana (Nigeria, Niger, Ghana, etc.), dal Corno Orientale dell’’Africa (Somalia, Eritrea), dall’Africa mediterranea (Marocco, Tunisia), dal Medio Oriente (Irak, Palestina) e dall’Oriente (India, Pakistan, Afghanistan). L’osservatorio psichiatrico di Brindisi aveva già visto passare Albanesi all’inizio degli anni ‘90, in seguito Slavi e mediorientali. L’inizio del nuovo millennio è degli africani. La nuova migrazione africana non è più ovviamente quella delle popolazioni ridotte in schiavitù, ma quella dei nuovi disoccupati delle campagne che, se fortunati, diverranno schiavi salariati nelle città. Nelle città africane in primo luogo come immigrati interni, nelle città europee in secondo , ma non meno importante per noi, luogo.
Una convenzione fra la cooperativa sociale “Connecting People” che gestisce per conto del Ministero dell’interno il CARA e il CIE e il Dipartimento di Salute mentale ha consentito di formare una equipe formata da 1 psichiatra, 2 psicologhe, 1 assistente sociale, 1 mediatrici linguistico-culturali, 2 interpreti, 1 infermiere, 1 medico, per affrontare i disagi psicologici e psicopatologici degli ospiti.
Si tratta di una esperienza, in corso, fatta da un anno e mezzo all’interno di strutture delimitate nello spazio e in un tempo limitato, con persone non libere, ma costrette nello spazio e nel tempo.
Si è dimostrato utile e necessario un approccio di tipo sistemico, sulla base del contributo dato nel campo della psichiatria transculturale da terapeuti sistemici come Ancora, Telfener, Andolfi, Losi. Il loro contributo, basato su una epistemologia che parte dal generale per arrivare al particolare, che mantiene dialetticamente attenzione all’area compresa tra i due poli, che comprende in questa area anche gli osservatori, che impone una continua riflessione su di essa, si è rivelato fondamentale per non incorrere nel rischio di una psichiatrizzazione dei bisogni espressi attraverso la sofferenza.













































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