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Massimino e Prigozhin, soldati alla conquista del Potere

di Menandro


Prigozhin non avrà la gigantesca altezza, tra i 239 e i 248 centimetri, né l'erculea forza di Gaio Giulio Vero Massimino, passato alla storia con il nome di Massimino il Trace, primo barbaro a diventare imperatore romano nel 235 d.c. Ma è innegabile che come lui deve aver accarezzato la seducente idea di essere issato sulle spalle delle sue truppe mercenarie alla presa dell'impero russo, alla conquista della inarrivabile capitale.

Come Massimino, che sollevò le sue legioni e incaricò alcuni sicari di sbarazzarsi dell'imperatore Alessandro Severo o indurre lo stesso ad uccidersi per arrivare a Roma, Prigozhin ha raccolto come una testa d'ariete i suoi 25mila miliziani (uomo più uomo meno, il numero è un elemento minore per l'immaginario collettivo) per minacciare una marcia su Mosca e impadronirsi delle chiavi del potere. E come tutti i temerari che sfidano il potere, di cui sospettano la crisi o annusano un'incipiente debolezza, ha giocato prepotente la carta della sorpresa. Mossa ideale per provocare nelle diffidenti stanze del Cremlino prima un'istintiva reazione di incredulità, seguita dalla preoccupazione di un caos primigenio velato d'anarchia e, ancora, in rapida sequenza, la diffusione del pericoloso virus della confusione. Un piano non velleitario, ma sostenuto da minacce concrete che non erano in molti ad accreditare a chi per anni è stato burlato come "il cuoco di Putin", definizione che sotto sotto faceva piacere anche al presidente della Federazione russa che usa con disinvoltura le tre grandi leggi universali del dominio: corruzione, paura e svalutazione.

Leggi conosciute anche da Prigozhin fin dalla giovane età. Ma, contrariamente a Putin, leggi apprese all'università del crimine, nelle patrie galere e non alla scuola del KGB. Dunque, luoghi che non sono proprio la stessa cosa, benché tra il serio e il faceto si avverte l'eco della vocazione alla manipolazione in una comunanza di sentimenti, punti di contatto o comunque qualcosa di familiare finalizzata all'uso e all'abuso di cinismo, crudeltà, violenza psicofisica, spietata cattiveria, principali materie d'insegnamento propedeutiche al potere. A differenza di Putin, che ha misurato il suo coraggio sul tatami del judo, collezionando cinture nere di sempre più alto dan e nell'uso accademico delle armi da fuoco, Prigozhin ha sviluppato il coraggio dietro le sbarre, quello della sopravvivenza fisica estrema che acuisce la convergenza di tutti i sensi elevati all'ennesima potenza. L'uomo giusto per formare e per domare l'esercito di ex detenuti del suo Gruppo Wagner, uomini cui viene data un'altra chance di vita a patto di sopprimere la vita di altri, come accade in tante aree del pianeta, con l'impunità di torture, stupri, ossia con il disgustoso repertorio dei soldati di ventura, che naturalmente è anche appannaggio di milizie organizzate in Occidente.

A differenza però non di Putin, ma di Massimino, Evgenij Prigozhin è ancora distante dal potere. Nelle concitate ore in cui marciava verso il Cremlino accompagnato dall'epiteto di "traditore della patria", la prudenza lo deve aver indotto a invertire la sua direzione. Come ai tempi di Stalin, i suoi uomini hanno ricevuto il mitico "contrordine compagni!" e lui ha accettato l'invito all'esilio in Bielorussia, dove gli verrà perdonata la sua temerarietà. Una pausa delle armi. Forse, in attesa di vedere come si compirà la parabola del suo avversario, la guerra in Ucraina, e di comprendere quante fette di potere ha dovuto cedere Putin e soprattutto a chi per arginare la sua minaccia.

L'offerta di perdono dell'imperatore Alessandro Severo a Massimino si ritorse contro il primo. Che Prigozhin confidi nei corsi e ricorsi storici?


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