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La Giornata nazionale contro i disturbi dell’alimentazione

di Rosanna Caraci

 


La giornata nazionale del 15 marzo dedicata alla lotta ai disturbi della nutrizione e alimentazione è l’occasione per fare il punto sullo stato dei servizi a disposizione di famiglie e pazienti, sempre più giovani. Sintomi di anoressia nervosa e ricoveri si hanno spesso prima dei dieci anni di età. Ed è anche per questo che l’associazione “Lo specchio ritrovato” ha voluto dedicare, nella giornata del Fiocchetto lilla simbolo della lotta alla malattia, una panchina proprio di fronte all’ospedale infantile Regina Margherita di Torino, dove si è svolto un incontro al quale hanno partecipato i massimi esperti del territorio a confronto con testimonianze di giovani pazienti. Chi ancora in cura, chi al termine del proprio percorso e orgoglioso per essersi affacciato a nuova vita.


Tre casi su quattro prima dei 25 anni

Nel mondo, circa una persona su otto convive con almeno un disturbo mentale, per un totale di quasi un miliardo di persone. Tra i più piccoli la situazione è anche peggiore: i bambini e gli adolescenti che soffrono di disturbi mentali oscillano tra il 10 e il 20% (dati Oms). Nel 75% dei casi le patologie psichiatriche esordiscono prima dei 25 anni e la metà presenta sintomi entro i 10-14 anni. È fondamentale porre la lente d’ingrandimento sull’età evolutiva, riconoscendone le specificità e le peculiarità rispetto all’età adulta, per intervenire precocemente puntando alla guarigione della sintomatologia attuale e al tempo stesso investendo nella salute degli adulti di domani. In Italia i pazienti sono poco meno di cinque milioni.

Parlare e sensibilizzare sui disturbi della nutrizione e dell’alimentazione non è semplice. Non lo è nemmeno quando si vestono i panni del giornalista, perché è necessario attivare un empatia con chi dall’altra parte deve essere informato adeguatamente e con una montagna impenetrabile di dolore, reso spesso ancor più duro dalla rabbia, dalla vergogna e, nei casi più gravi, dalla rassegnazione. E’ complicato fare la cosiddetta “prevenzione primaria” per almeno due motivi: perché ai giovani, principali destinatari, non basta dire siate come siete e non trasferite l’accettazione di voi stessi attraverso l’immagine del vostro corpo; perché occorre essere attenti a non scatenare effetti iatrogeni che possono essere deleteri e perché spesso parlando di alcune condotte che si innescano nella gestione della malattia alimentare da parte del paziente, si corre il rischio di dare suggerimenti pericolosi a coloro che hanno dentro il germe di un disagio che aspetta solo un canale per potersi esprimere. Perché questo è il disturbo alimentare: un canale attraverso cui il disagio che diventa patologia sceglie di esprimersi.

Un sintomo. Anoressia, bulimia, ma anche binge eating desorder, ortoressia, vigorlessia, drunkoressia… e tanti altri sono misconosciuti nemici dell’anima e della salute che portano chi ne soffre a sezionarsi con diete che espongano il più possibile quella leggerezza usata come arma per punire chi intorno non sa amare abbastanza, contro chi non sa vedere o non vede nel modo giusto. E sé stessi. Digiuni ripetuti, diete imparate a memoria, inferni di bilance, di calorie, di esercizio fisico, di competizione e di risultati a scuola, sul lavoro, nello sport molto positivi, molto spesso. Perché i ragazzi e le ragazze con problemi i DNA sono spesso bravi e capaci: fanno bene tutto, sono perfezionisti, maniacali a volte. C’è chi anziché privarsi del cibo in regimi alimentari ostinati e assassini si abbuffa, nell’ombra, per colmare il vuoto emozionale e affettivo (eccolo lì, di nuovo, il disagio dell’anima) e poi divorato dal senso di colpa si purga, o vomita e alterna ingozzate a digiuni privi di ogni senso. C’è chi si guarda allo specchio e non riesce a percepirsi e si vede sempre inadeguato e si ostina in allenamenti in palestra o in sessioni sportive estenuanti, fino a svenirci.


I limiti dell'informazione

Un mondo al quale l’informazione spesso non dà ciò serve. I giusti mezzi per affrontare un’epidemia sociale. L’informazione non cura ma, in un gioco di parole, informa su ciò che accade e deve farlo in modo coerente e privo di filtri. Le storie di ragazze e ragazzi che con i disturbi dell’alimentazione hanno vinto la battaglia o che la stanno ancora combattendo, alcuni si battono come dei leoni per anni e anni, vengono raccontate in modo crudo e diretto dagli stessi interessati con un messaggio inequivocabile. Di questo, si muore.


Noi giornalisti, che dovremmo informare, facciamo in realtà un lavoro a metà, focalizzandoci sul cibo e demonizzando diete, pensando che ci si ammali perché si vuole semplicemente essere magri, perché le giovani “vogliono essere come le modelle”. Non è la malattia delle ragazzine. Femmine e maschi, in età anche infantile si ammalano. Uomini e donne, adulti che recidivano o che si ammalano per la prima volta dopo un trauma, uno stop, un corto circuito.  Il nemico della corretta informazione è il luogo comune, che cerca non la giusta lettura, ma il colpevole: è colpa della famiglia, è colpa della madre, è colpa della scuola, è colpa dello sport, è colpa della moda, delle taglie in negozio…  Questo è il primo ostacolo alla presa in carico dell’esistenza di un disagio: evitare di chiamarlo con il proprio nome. Disagio mentale, inadeguatezza, solitudine, ansia… a volte tutto insieme. Per questo guarire il rapporto con il cibo non servirà, se il germe  resta lì perché si sposterà su altro: shopping compulsivo, gioco d’azzardo, alcolismo, sessualità disordinata, droga, autolesionismo. Atti che vengono perpetrati contro sé stessi perché fanno male, ma meno del dolore che ci si ostina a non sentire. Perché quello sì, quello fa una paura infinita.

 

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