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L'Italia in mezzo al guado tra riforme costituzionali e leggi elettorali

di Giancarlo Rapetti*


Foto di Francesco Ammendola - Ufficio per la Stampa e la Comunicazione della Presidenza della Repubblica

Riforme costituzionali o istituzionali: un tema che affascina una parte del pubblico e lascia indifferente un’altra parte. I primi ritengono che la decrescente qualità della politica possa essere contrastata cambiando le regole di funzionamento delle Istituzioni; i secondi sono convinti che le Istituzioni siano irrilevanti per gli interessi della vita quotidiana.

E’ lecito il dubbio che sbaglino entrambi. La qualità della politica dipende dalla qualità dei politici, da come sono selezionati, dalla voglia dei cittadini migliori di impegnarsi al servizio degli altri. E la politica è non solo rilevante, ma decisiva per la vita quotidiana dei cittadini: è il Parlamento che, approvando la legge di bilancio proposta dal Governo, decide quante risorse andranno al Servizio Sanitario Nazionale, cioè decide quanto, come e dove potremo curarci quando avremo problemi di salute.


Temi fondamentali per la vita del Paese

Quindi il tema delle Istituzioni e della Costituzione non è astratto o elitario, ma fondamentale, proprio per chi vuole essere concreto. Ma come va affrontato? Adesso è di moda dire che bisogna intervenire sulla Costituzione per rendere i Governi più stabili e perché si sappia, la sera delle elezioni, chi “ha vinto”. Riducendo le elezioni, l’esercizio della sovranità popolare, la complessa funzione di governo, a una partita di calcio.

Una considerazione preliminare: le istituzioni sono tanto più efficienti e autorevoli quanto più sono stabili. Gli ammiratori della Costituzione americana possono agevolmente ricordare come la sua forza e autorevolezza risieda nel fatto che è la stessa da oltre duecento anni e nessuno ha mai pensato di sovvertire l’equilibrio tra i due poteri, quello presidenziale e quello parlamentare, che traggono entrambi legittimazione diretta dall’elezione popolare.

Una formula copiata dal sistema inglese, Re e Parlamento, più vecchia della Rivoluzione Francese e dei parlamenti europei, ma che ha dimostrato di funzionare. Un corollario di questa considerazione è che non si deve cambiare per cambiare, ma solo se strettamente necessario, sapendo che i danni che si creano cambiando le Istituzioni di base devono essere giustificati da vantaggi rilevanti, non altrimenti raggiungibili. Avevo apprezzato di Carlo Calenda una frase dei primi tempi: "smettiamo di fare e pensare riforme, e facciamo funzionare l’esistente con la necessaria cura della gestione".


La proliferazione - inutile e dannosa - di leggi costituzionali

A un primo anche superficiale esame, il comportamento tenuto nel nostro paese al riguardo è stato esattamente il contrario. Dal 1° Gennaio 1948, data di entrata in vigore della Carta, ci sono state più di quaranta leggi costituzionali: sedici per approvazione e modifica degli statuti delle Regioni a statuto speciale, molte per normare funzioni costituzionali, diciotto per la modifica esplicita di articoli della Costituzione. Queste ultime modifiche appartengono a due categorie, quelle inutili (amplificazioni, integrazioni, banalizzazioni di principi fondamentali), e quelle dannose (Titolo V, la riduzione del numero dei parlamentari, l’articolo 68).

L’obiezione in agguato al ragionamento sin qui seguito dice: ma la società, le conoscenze, le esigenze si evolvono, anche le leggi devono adeguarsi. Assolutamente sì, la risposta alle novità, l’orientamento all’innovazione sono fondamentali. Ma è compito delle leggi ordinarie, proprio nel quadro tracciato dalle cose stabili, come è la legge fondamentale. Se i principi e le regole sono mutevoli, non esistono più principi o regole. Detto in altre parole: possiamo adeguare i percorsi, ma l’orizzonte a cui tendere è sempre là, altrimenti il nostro cammino è senza meta.

Passiamo tuttavia oltre queste considerazioni generali, e affrontiamo il tema di attualità. La destra sbandiera il “presidenzialismo”, naturalmente, secondo una collaudata e vincente tecnica di comunicazione, senza dire che cosa è e come si fa. Basta la parola: nella cultura politica di destra campeggia da sempre il leader carismatico che ha rapporto diretto col popolo (“l’unto del Signore”) e quindi non risponde a nessuno (si tiene fuori dal “teatrino della politica”, cioè evita il confronto con altri soggetti politici). Ma ora questo andazzo è seguito da altri soggetti, non riconducibili alla destra, presumibilmente spinti da buone intenzioni.


L'assurda equiparazione tra sindaco e Presidenti del consiglio

La proposta del Sindaco d’Italia, lanciata da Matteo Renzi e sostenuta da insospettabili menti brillanti, è un segno inquietante dei tempi. Sinteticamente si potrebbe riassumere così: il Presidente del Consiglio è eletto direttamente dal popolo, insieme alle sue liste collegate, quindi ha una maggioranza parlamentare automatica. Senza bisogno di dirlo, il Presidente della Repubblica è implicitamente destituito di ogni funzione. In caso di dimissioni o sfiducia, si torna a votare; quindi il Parlamento ha due opzioni: continuare a sostenere il Presidente del Consiglio, oppure autosciogliersi. Diventa anch’esso un organo inutile.

I sostenitori di questa proposta dicono: ma il sistema nei Comuni funziona. Si potrebbero portare molti esempi del contrario, ma la diatriba sarebbe infinita. Ammesso e non concesso che il sistema nei Comuni funzioni, l'ex presidente della Camera Luciano Violante ha spiegato molto bene la differenza tra lo Stato e i Comuni. Il Parlamento è il depositario della sovranità popolare, attraverso la rappresentanza. Il Governo costituisce il potere esecutivo, che esercita secondo la legge. I Comuni non fanno leggi, non sono depositari di sovranità, ma semplicemente amministrano. La rappresentanza politica plurale è il fondamento della democrazia moderna.

Insomma siamo a quella distinzione di base, che insegnavano anche alle elementari, e sulla quale si fonda da tre secoli la cultura politica europea: il Parlamento fa le leggi, il Governo le applica, il potere giudiziario sanziona chi le leggi non rispetta.

Abbandonare questa tripartizione, facendo coincidere legislativo ed esecutivo, per di più nella persona di un nuovo monarca assoluto (Il Presidente-Sindaco d’Italia), sarebbe una regressione a prima dell’Illuminismo e della Rivoluzione Francese.

Ma, si obietta ancora, mentre la Germania ha avuto dal dopoguerra a oggi, nove cancellieri, da noi, dal 1948 si sono succeduti 65 Governi (ma solo 30 diversi Presidenti del Consiglio). I numeri sono veri, l’interpretazione dei numeri maliziosa. Italia e Germania hanno sistemi simili, eppure la durata dei Governi è diversa. I Governi della Prima Repubblica, durata media un anno, non erano affatto segno di instabilità. Tra un Governo e l’altro c’era continuità di azione politica, anche quando c’era avvicendamento delle persone. L’instabilità è cominciata quando, per dare stabilità, si è inventato il sistema elettorale maggioritario, che ha creato maggioranze fittizie, pronte ad esplodere: è capitato a Berlusconi, è capitato a Prodi. E’ cominciato il gioco della tela di Penelope e il paese ne ha sofferto.

Invece di invocare il leader carismatico e cancellare nei fatti il Parlamento, sarebbe il caso di ridare dignità e forza al Parlamento. Con una legge elettorale degna di questo nome, basata su pochi principi semplici: la rappresentanza plurale dei partiti e la rappresentanza dei territori.

La traduzione pratica si realizza con il proporzionale di collegio - ripeto, di collegio - e il divieto di candidature plurime. Alla sera delle elezioni devo sapere chi sono i rappresentanti del mio territorio, come prima delle elezioni dovevo sapere quali erano i candidati del mio collegio.


Una proposta per il cambiamento

Facciamo uno schema sintetico di questa mia proposta: si devono eleggere 400 deputati (troppo pochi per garantire rappresentanza territoriale adeguata, ma ormai è un dato di fatto). Possono andare bene 100 collegi, uno per provincia in media, ma bisogna tener conto della popolazione. Le province più grandi hanno più collegi, quelli più piccole vanno accorpate (per esempio Alessandria più Asti). Poniamo che ogni collegio debba eleggere quattro deputati. Quindi ogni lista concorrente deve avere quattro candidati e i seggi sono assegnati all’interno del collegio col metodo D’Hondt. Non ci sono resti o recuperi in sede nazionale.

Facciamo un esempio: in un determinato collegio si presentano cinque liste, che ottengono rispettivamente: Lista A 100k voti, Lista B 65k voti, Lista C 42k voti, Lista D 27k voti, Lista E 15k voti.

Applicando il metodo D’Hondt senza correttivi e utilizzando i soli quozienti interi i seggi sono così assegnati: Lista A = 2, Lista B = 1, Lista C = 1. Gli altri voti non producono eletti. Nell’esempio, per ottenere un seggio nel collegio, una lista deve ottenere almeno il 16% dei voti. Come si vede, la rappresentanza è plurale, ma non c’è rischio di elevata frammentazione, perché con pochi seggi in palio la soglia di sbarramento implicita è molto alta.

Determinato il numero di seggi spettante a ciascuna lista, sono eletti i candidati in ordine di lista, senza preferenze.

Obiezione: ma così gli eletti sono scelti dai partiti, non dagli elettori. Obiezione respinta. I candidati sono scelti dai partiti comunque, quindi la preferenza sarebbe comunque esercitata su di una preselezione ristretta.

Ma gli argomenti contro le preferenze sono ben altri.

Il primo è di ordine pratico: in Italia ci sono circa 90.000 sezioni elettorali, che vuol dire circa 450.000 tra presidenti di seggio e scrutatori, di cui nessuno ha curato la preparazione. Per ridurre al minimo gli errori occorre evitare conteggi complessi e "non quadrabili" (se una preferenza non viene conteggiata, non c'è modo di accorgersi dell'errore). Per evitare anche dubbi, richieste di riconteggio (che poi spesso sono fatti sui verbali e non sulle schede, quindi inutili), contenziosi.

Gli altri motivi sono di ordine politico: la caccia alle preferenze fa aumentare il costo della politica e genera clientele personali, con il vagabondare tra i partiti di personaggi che offrono il proprio pacchetto di preferenze.

Il problema della scelta dei candidati esiste, e che sia fatta dai partiti è fisiologico: i partiti esistono proprio per quello e, come diceva Norberto Bobbio, sono "più che utili, sono necessari". Devono funzionare secondo regole interne democratiche e qui sarebbe il caso di attuarla, la Costituzione (art. 49), anziché cambiarla. In modo che modalità di iscrizione, pagamento delle tessere, poteri degli organismi dirigenti, fossero stabiliti per legge (statuto tipo) e controllati da funzioni terze.

Si è parlato sin qui di Camera e non di Senato. Il Senato ha metà membri, quindi inevitabilmente i collegi devono essere più grandi. Per inciso, insistere sul fatto che il Senato è un doppione e quindi servirebbe una sola camera, credo sia improprio, se non altro perché i paesi che hanno una sola camera prevedono di norma la doppia lettura delle leggi, quindi sul tempo necessario per approvare un provvedimento non cambia granché. E va sempre ricordato che le leggi non sono strumento urgente di governo, ma regolano le esigenze e i mutamenti strutturali della società, devono essere tempestive, ma assai di rado sono urgenti. Le urgenze le affronta il Governo a legislazione vigente, come ha insegnato la Covid-19.

In conclusione: riformare la Costituzione è un atto estremo, che dovrebbe avvenire solo se fossero cambiate significativamente le condizioni del contratto sociale. L’efficienza e l’efficacia dell’azione politica dipendono dalla qualità degli eletti, che è, tra l’altro, un risultato della legge elettorale, legge ordinaria che è necessario modificare totalmente.

A Parlamento eletto, il Presidente della Repubblica (come da Costituzione vigente garante dell’equilibrio del sistema) incaricherà come Presidente del Consiglio chi sappia raccogliere intorno a sé la fiducia della maggioranza parlamentare. Nell’ultimo ventennio, i governi più utili al paese sono stati quelli di Monti e di Draghi, non a caso formati proprio applicando la Costituzione da parte di due grandi Presidenti della Repubblica, Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella (presidenti eletti dal Parlamento).


* Componente del Direttivo Regionale Piemonte e dell'Assemblea Nazionale di Azione

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