L'Editoriale della domenica. Voto Sì ai Referendum: il lavoro non è una merce
- Ferruccio Marengo
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di Ferruccio Marengo

Oggi e domani, 8 e 9 giugno, urne aperte per cinque quesiti referendari, approvati nel gennaio scorso dalla Corte costituzionale, quattro riguardano il lavoro e sono stati proposti dalla Cgil, uno entra nel merito della cittadinanza ed è stato proposto da +Europa.[1] I seggi sono aperti dalle 7 alle 23 di oggi e dalle 7 alle 15 domani. Per essere validi, è necessario che si rechi a votare il 50 per cento+1 degli elettori.
Se nelle attuali condizioni dell’economia globale e nazionale pare difficile, se non velleitario, contrastare alla radice l’idea di lavoro oggi prevalente, è tuttavia possibile porre alcuni freni alla sua affermazione, anche attraverso la mitigazione degli effetti peggiori che essa produce sui singoli e sulla collettività.
In primo luogo, è possibile limitare l’erosione del quadro normativo a suo tempo posto a tutela dei lavoratori. Siamo oggi chiamati a esprimerci su quattro referendum in materia di lavoro: ad essi voterò sì, non soltanto perché i quesiti posti in materia di licenziamenti, tutele e sicurezza dei lavoratori mi paiono condivisibili, ma anche perché, così facendo, intendo esprimere il mio dissenso verso l’idea del lavoro come merce, forse oggi prevalente, ma del tutto inaccettabile per la dignità dei lavoratori e dei cittadini.
A supporto di questa mia scelta e delle idee fin qui esposte voglio richiamare alcune voci ben più autorevoli della mia: quelle degli estensori della Dichiarazione Universale di Diritti Umani del 1948, che, all’articolo 23, stabilisce che ‘Ogni individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta dell'impiego, a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro ed alla protezione contro la disoccupazione’; e quella dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro che nella ‘Dichiarazione sulla giustizia sociale per una globalizzazione equa’ del 2008 afferma che ‘Il lavoro non è una merce e la povertà, ovunque esista, costituisce un pericolo per la prosperità di tutti’.
Cambiamenti non marginali per il sistema produttivo
Nel corso dell’ultimo quarto del Novecento i sistemi produttivi sono stati interessati da due importanti cambiamenti organizzativi. Il primo - quello del ‘giusto in tempo’ (più elegantemente, just in time) – è una metodologia di programmazione e gestione secondo la quale ogni elemento costitutivo del prodotto o del servizio realizzato – sia esso un componente, un sottogruppo o un prodotto finito – deve essere disponibile nel momento stesso in cui il processo produttivo o distributivo lo richiede, né prima né dopo. Il secondo cambiamento è quello della ‘produzione su domanda’, in base alla quale la produzione di un bene o servizio deve avvenire solo a seguito della richiesta (e del pagamento) da parte del cliente.
L’applicazione di queste innovazioni ha generato cambiamenti non marginali, sia sull’organizzazione dei processi interni alle aziende, sia nel sistema produttivo complessivo. In quest’ultimo caso, l’introduzione dei nuovi ‘principi’ ha rafforzato la tendenza già in atto al decentramento delle fasi di lavorazione e alla conseguente crescita delle unità produttive di piccole e medie dimensioni, ritenute più ‘flessibili’, anche per l’assenza, o la debolezza, in esse, delle organizzazioni sindacali. Per effetto di queste innovazioni, le catene di produzione del valore, precedentemente concentrate su un numero limitato di grandi aziende, hanno preso la forma di ampie e complesse reti di cooperazione, ciascuna formata da un elevato numero di aziende, spesso operanti in Paesi diversi. L’applicazione di questi nuovi modelli organizzativi ha portato a una significativa riduzione dei costi di produzione, grazie all’eliminazione (o alla riduzione) dei ‘polmoni’ di stoccaggio dei semilavorati in attesa di impiego e dei prodotti finiti in vista della vendita.
La precarizzazione del lavoro
Al successo del nuovo modo di lavorare è seguita l’idea di estendere anche al lavoro i principi di gestione applicati ai beni: perché non utilizzare, anche per il lavoro, i principi del just in time e dalla produzione su domanda? Se la richiesta di un bene o un servizio è instabile nel tempo (nell’arco dell’anno, del mese, della settimana o addirittura del giorno) perché non utilizzare, nei diversi segmenti di tempo, la quantità strettamente necessaria di lavoro? In altri termini, perché non trattare il lavoro come una qualsiasi altra merce, ‘comprandolo’ soltanto quando è indispensabile e lasciandolo inutilizzato (e non retribuito) quando la domanda di beni e servizi non lo richiede?
La ricerca delle risposte a questi interrogativi ha però dovuto fare i conti con due ostacoli. Il primo è rappresentato dal fatto che il lavoro, inteso come merce, è un’astrazione, poiché esso s’incarna di necessità in un soggetto umano (il lavoratore): per trattare il lavoro come merce è quindi necessario ridurre il lavoratore a merce. Il secondo ostacolo è dato dal fatto che i lavoratori, proprio per evitare la loro riduzione a merce, erano (e sono, anche se in misura via via decrescente) tutelati da un insieme di norme giuridiche, contrattuali e di fatto che ne regolano e limitano l’impiego. Per avvicinarsi sempre più all’ideale del lavoro merce è quindi necessario togliere di mezzo l’impianto normativo edificato per la protezione dei lavoratori.
Le politiche del lavoro che hanno favorito la precarietà
Dagli ultimi anni del Novecento, la politica del lavoro adottata in Italia è stata finalizzata a depotenziare sempre più questo impianto normativo. Tra il 1997, con la legge 469, e il 2015, con il pacchetto di norme comunemente definito Jobs Act, i governi che si sono succeduti alla guida del Paese hanno emanato decine di provvedimenti legislativi volti a incrementare la ‘flessibilità’ del lavoro agendo due linee direttrici.
La prima è stata finalizzata ad accrescere la flessibilità dell’occupazione consentendo alle imprese di variare la quantità di lavoratori impiegati (e retribuiti) in base alle oscillazioni del loro ciclo produttivo, attraverso l’impiego di un’ampia gamma di contratti a termine, compresi i contratti di ‘somministrazione’ (interinali), di contratti atipici o ‘parasubordinati’ e, non da ultimo, con la possibilità di fatto di licenziare i lavoratori di volta in volta ritenuti in esubero.
La seconda è stata finalizzata ad accrescere la flessibilità delle prestazioni, ottenuta con la diffusione del part-time (il più delle volte involontario), l’impiego di regimi di orario ‘pluriperiodali’, l’utilizzo di orari frammentati e distribuiti su tutti i giorni della settimana, i trasferimenti in altri reparti e sedi di lavoro.
I fallimenti delle nuove politiche del lavoro
In quasi tutti i provvedimenti adottati è stato indicato l’obiettivo di dare vita a un mercato del lavoro inclusivo e dinamico, in grado di accrescere l’occupazione, ridurre il tasso di disoccupazione e favorire la crescita sociale ed economica del Paese.
Se non c’è ragione di ritenere che tali affermazioni non rispecchiassero l’intento del legislatore, occorre tuttavia rilevare, dopo circa trent’anni, che tali obiettivi non sono stati raggiunti.[2] Nel 2023 il tasso di occupazione della popolazione italiana compresa tra 15 e 65 anni, è stato del 61,5 per cento, e continua ad essere significativamente più basso di quello degli altri grandi paesi europei (Spagna, 65,3 per cento; Francia, 68,4; Germania, 77,2); rispetto al 1999 lo stesso tasso è cresciuto in Italia di 9 punti, meno di quello registrato in Spagna (11,7) e in Germania (12,4). Negli stessi anni, i lavoratori part-time occupati in Italia sono saliti da 1,6 a 4 milioni (il 55 per cento dei quali involontari); quelli con contratto a termine sono passati da 1,4 a 2,9 milioni.
Allo stesso tempo, la progressiva ‘flessibilizzazione’ del mercato del lavoro ha contribuito ad accrescere il numero dei lavoratori poveri, che, pur essendo occupati, non dispongono di un reddito sufficiente per assicurare di che vivere in modo decoroso a loro e alle loro famiglie. Nel 2023, 4,2 milioni di lavoratori dipendenti italiani (un quarto circa del totale) ha ricevuto un salario lordo annuo inferiore a 10.000 euro.
Dall'ultimo Rapporto mondiale sui salari
L’Organizzazione Internazionale del Lavoro, nel suo ultimo ‘Rapporto Mondiale sui Salari’, pubblicato nel marzo 2025, ha attestato che le retribuzioni reali dei dipendenti italiani, pur essendo cresciute nel corso del 2024, rimangono inferiori di 8,7 punti percentuali rispetto a quelle del 2008.[3]
Nel contempo, un numero sempre maggiore di giovani italiani (spesso dotati di competenze di alto profilo) ha scelto di andare a lavorare all’estero, dove trovano migliori condizioni di lavoro e salari più elevati: nel solo 2024, coloro che hanno scelto la strada dell’emigrazione sono stati 191mila.
Né sembra che la precarizzazione del lavoro abbia dato un contributo positivo alla competitività del nostro sistema produttivo. Al contrario, il basso costo del lavoro sembra aver frenato la spinta verso gli investimenti, in primo luogo nel campo della ricerca e dell’innovazione dei prodotti e dei processi produttivi[4]: in quasi tutti i comparti industriali e dei servizi, all’aumento dei margini operativi lordi ottenuto delle aziende non è corrisposto un equivalente aumento degli investimenti.
I costi umani e sociali della precarietà
L’indebolimento del quadro normativo di tutela dei lavoratori ha favorito la diffusione di un senso d’irresponsabilità da parte delle aziende, che sembrano, il più delle volte, non interessate agli effetti negativi che la precarizzazione genera sulle persone e sulla collettività. L’affermazione dell’idea di lavoro come merce ha consentito loro di esternalizzare i costi economici, umani e sociali della flessibilità senza vincoli di carattere sociale ed etico. In altri termini, le aziende ritengono, nella maggior parte di casi, che sia loro compito preoccuparsi unicamente di accrescere competitività e profitti, trascurando le difficoltà di chi perde il lavoro, di chi deve affrontare lunghi periodi di disoccupazione tra un lavoro precario e l’altro, o di chi, pur lavorando, non dispone di un reddito sufficiente per vivere decorosamente. I costi della precarietà sono così usciti dell’orizzonte della responsabilità aziendale e finiscono per gravare unicamente sullo Stato, gli enti locali, le associazioni del terzo settore e, innanzi tutto, sulle persone e le famiglie direttamente colpite.
Si tratta di costi che trascendono la sola dimensione economica, che pure rimane uno dei più pesanti vulnus inferti ai lavoratori. La flessibilità esasperata, la necessità della ricerca continua di lavori a tempo determinato inframmezzati da periodi di non occupazione, l’impiego in lavori che comportano orari frammentati e distribuiti in modo imprevedibile su base giornaliera, settimanale e mensile, lo spettro del trasferimento in altre sedi o, peggio ancore, del licenziamento, alimentano una condizione di precarietà che genera uno stato di insicurezza soggettiva, a causa della quale il lavoratore vive in una condizione di continua imprevedibilità e dipendenza che lo priva della possibilità di elaborare progetti per il suo futuro professionale, personale e familiare. Con ciò perde in gran parte la possibilità di dare un senso alla propria vita, costantemente esposta all’impatto di eventi contingenti, imprevedibili e incontrollabili. Si riduce così in esso, fino ad azzerarsi, la percezione della possibilità di mantenere il controllo di sé e del mondo che lo circonda, e viene alimentato un senso d’impotenza e di sfiducia che sempre più frequentemente si manifesta in atteggiamenti di astensione da ogni forma di partecipazione sociale e politica. Nello stesso tempo, la precarietà impedisce all’individuo di costruire una sua solida identità professionale che gli permetterebbe non solo di rafforzare la sua posizione nel mercato del lavoro, ma anche di accrescere uno degli elementi costitutivi della sua identità personale e sociale. Un'altra delle ragioni per cui voterò sì al referendum.
Note
[1] Per sensibilizzare sul tema referendario della cittadinanza, rimandiamo al documentario "PIL" realizzato dall'Associazione Plurale per la regia di Stefano Di Polito e reso visibile dai produttori all'indirizzo https://m.youtube.com/watchv=PuXeiruFE50&t=7s&pp=ygUicGlsIHBlcmNow6kgaW1taWdyYXppb25lIMOoIGxhdm9ybw%3D%3D
[2] È interessante ricordare, a questo proposito, che l’Ocse, dopo aver per anni promosso le misure di flessibilizzazione del mercato del lavoro, ha dovuto riconoscere, nell’Employment Outlook 2004, che non sembrano sussistere correlazioni positive, empiricamente fondate, tra livello di flessibilità e grado di occupazione.
[3] Sul tema salariale si veda anche l’articolo di Pietro Terna Punture di spillo. Cinque sì ai Referendum dell’8 e 9 giugno, pubblicato sulla Porta di vetro il 29 maggio scorso
[4] Sugli investimenti alcuni dati interessanti sono riportati nell’ultima Relazione annuale della Banca d’Italia e nelle Considerazioni finali del Governatore Fabio Panetta
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