L'Editoriale della domenica. Riforma giustizia: inutile per le esigenze vere dei cittadini
di Giancarlo Rapetti

Il Disegno di Legge Costituzionale sulla “separazione delle carriere della magistratura giudicante e requirente” ha superato, con l’approvazione da parte della Camera dei Deputati, la prima delle quattro letture previste. E’ accompagnato da una contrapposizione piuttosto netta tra la maggioranza e la parte prevalente della opposizione; tuttavia il contenuto della proposta, né i suoi presupposti, né le sue conseguenze, giustificano una guerra di religione. Anche se una frase della introduzione al testo in discussione al Senato qualche dubbio lo instilla. Dicono infatti i relatori che “nell'intero mondo occidentale il problema è quello della presenza di un giudice che oramai governa con le proprie decisioni non solo i nodi essenziali dei diritti e delle garanzie individuali, ma anche quelli dell'economia, dell'ambiente e dello sviluppo tecnologico, sostituendosi di fatto al ruolo che un tempo esercitava la politica, improvvisando così soluzioni sul caso concreto”. Questa dichiarazione può far nascere il sospetto che la politica voglia riprendersi il ruolo, non con la forza che le viene dalla rappresentanza e dai buoni argomenti, ma mettendo sotto controllo l’ordine giudiziario. Si tratta appunto di un mero sospetto, un processo alle intenzioni, che non deve condizionare l’esame laico e disincantato della questione.
Che cosa propone il ddl in esame? Sostanzialmente tre cose: concorsi separati per accedere alle due carriere con l’implicito divieto di passaggio dall’una all’altra; due distinti Consigli Superiori della Magistratura, con una composizione modificata che riduce il peso dei togati; la fine “dell’obbligo dell’azione penale” costituzionalmente stabilita, rinviando “casi e modi” dell’obbligo alla legge ordinaria.
Che la Giustizia italiana sia in crisi non v’è dubbio. Crisi di risultati: i processi e le eventuali condanne arrivano tardi, la scarsità di posti nelle carceri obbliga a continui escamotage per ridurre il numero dei detenuti, con tanti saluti alla certezza della pena, ma anche ai tentativi, spesso velleitari, di rieducazione.
Crisi di credibilità: molti processi istruiti finiscono, dopo anni, con assoluzioni; e molte sentenze di primo grado sono ribaltate in appello o censurate in Cassazione. Crisi di immagine: la magistratura appare come un corpo non indipendente, ma separato, preso più dalle proprie logiche correntizie che dallo svolgimento della propria funzione. Alcuni, o molti, magistrati ci mettono del loro. Per conoscenza della materia, è comprensibile ed anche utile che giudici e procuratori della Repubblica esprimano pareri e valutazioni sulle proposte di legge in discussione. Meno comprensibili sono le proteste, vistose e folkloristiche, che mal si addicono alla compostezza e al senso dello Stato che dovrebbero caratterizzare i togati. Elementi di necessaria riflessione per il neopresidente dell'Associazione nazionale magistrati (ANM), eletto ieri, il torinese Cesare Parodi.
La domanda da porsi allora è: il disegno di legge sulla separazione delle carriere dà una risposta a queste tre crisi? Prima di affrontare i singoli aspetti, varrà la pena soffermarsi su di un problema inespresso, ma decisivo. In ogni azienda di grandi dimensioni ci sono tre gruppi di persone, distribuite secondo una curva di Gauss. Il primo gruppo, valutabile tra il dieci e il venti per cento del totale, è formato di persone di qualità, competenti e motivate. Il secondo gruppo, con simili percentuali, consta invece di persone per nulla motivate, che ritengono il lavoro una sgradevole necessità “per portare a casa la pagnotta”, o semplicemente sono prive di qualsivoglia talento. Il terzo gruppo, il più numeroso, tra il sessanta e l’ottanta per cento, è formato di persone mediamente preparate e mediamente motivate, che sono comunque utili all’azienda se si trovano ad operare in un contesto favorevole e con una leadership adeguata. Con questo mix la maggior parte delle organizzazioni complesse riesce a lavorare e produrre, traendo da ognuno dei partecipanti quanto è in grado di offrire all’impresa comune.
Per la funzione giudiziaria non è così. Il lavoro del giudicare non è un lavoro di squadra: il giudice nel valutare le prove e nell’arrivare alla decisione è solo, anche quando si tratta di organi collegiali. L’intuizione e la coscienza personale sono l’ultima istanza di un processo che mette insieme i fatti ma poi li deve interpretare e valutare: il libero convincimento non può essere sostituito da un algoritmo. Per questo motivo, la qualità dei componenti l’ordine giudiziario è decisiva; la qualità di tutti, non solo di alcuni. Quando emette sentenza, il giudice non è soggetto a gerarchie, è l’unico capo di sé stesso. Questo è il vero nodo: nessuna riforma, cioè nessuna griglia, nessun contenitore, sarà utile se non si affronta il nodo della qualità dei magistrati, specialmente dei giudicanti.
Il magistrato deve essere equilibrato, esperto, riflessivo, imparziale. L’imparzialità, è noto, non può essere assoluta. Ogni essere umano ha i suoi a priori, le sue convinzioni, i suoi valori: il magistrato imparziale è quello così attento e sereno da non farsi condizionare troppo dai suoi a priori e a non esibire manifestazioni esterne in contraddizione con tale esigenza. Come si sintetizza spesso, deve essere ed apparire imparziale. Apparire è altrettanto importante dell’essere: nessuno crederà che la decisone del giudice sia giusta, se si è dimostrato prevenuto in altra sede. E quando nessuno crede che la decisione del giudice sia giusta, la giustizia intera ne soffre. Come si fa ad avere un magistrato equilibrato, esperto, riflessivo, attento, imparziale? Premesso che si tratta di obiettivi non facili e non assoluti, occorre che le modalità di selezione all’ingresso e le verifiche in corso di carriera siano coerenti con gli obiettivi stessi: occorre che tutti o la grande maggioranza degli appartenenti all’ordine giudiziario rientrino nel primo dei citati gruppi di distribuzione.
Da questo punto di vista, il ddl in esame non realizza alcun beneficio, diciamo che è neutro. Se ora per entrare in magistratura c’è un concorso inadeguato, dopo ci saranno due concorsi inadeguati. Semplicemente fare due concorsi costa più che farne uno. Se proprio vogliamo vedere da che parte pende la bilancia dei pro e dei contro, si deve ammettere che, semmai, il passaggio tra le due funzioni arricchirebbe l’esperienza professionale. L’ingresso potrebbe essere esclusivamente nella magistratura requirente, dove la struttura più gerarchica servirebbe da scuola, evitando gli errori più gravi, con il passaggio al giudicante quando il togato ha acquisito più maturità e preparazione. Il caso spesso ipotizzato, del pubblico ministero di un procedimento che, se passasse al giudicante in pendenza del processo, potrebbe trovarsi a decidere su di una accusa costruita da lui stesso, è previsto ed evitato, come causa individuale di incompatibilità, già dalle leggi ordinarie vigenti.
Un argomento che viene portato a favore della separazione delle carriere è questo: se il giudice deve essere terzo, il pubblico accusatore e il giudice non possono essere colleghi, non possono prendere il caffè insieme, perché così facendo il pubblico ministero condiziona il giudice. Questo argomento, che ha una sua consistenza psicologica, implica però un corollario. Per evitare che pm e giudice prendano il caffè insieme, bisogna separali anche fisicamente: quindi non solo due consigli superiori, ma anche due palazzi di giustizia. Che costerà costruire e gestire. E dove invece le sedi di Tribunale e Procura sono già diverse, il problema non esiste?
Secondo argomento: le Procure si lanciano spesso in iniziative inconsistenti, che non reggono alla prova del processo, ma solo dopo aver distrutto vita e carriere degli indagati risultati poi innocenti. Non si vede come la separazione delle carriere possa evitare ciò. Per certi versi potrebbe accentuare il problema, visto che il magistrato di accusa si sentirebbe ancora meno vincolato alla valutazione critica dei fatti e alla considerazione delle prove anche a discarico dell’imputato, essendo il suo ruolo non più quello di ricercatore della verità ma di costruttore dell’accusa. Si dice, ma oggi il pm fa già così, delle prove a favore dell’indagato si interessa poco: a volte, spesso, è vero, ma quando fa male il suo lavoro; dopo, verrebbe implicitamente autorizzato a farlo. Quello che oggi è un errore, diventerebbe una regola. Anche qui c’è un corollario: se la pubblica accusa non si interessa più di quanto può essere utile all’imputato, questo compito spetta all’avvocato difensore. Il quale non è più il garante della regolarità del procedimento penale, ma deve a sua volta indagare, trovare le prove a favore del suo assistito, ricorrere agli investigatori privati, come nei telefilm americani. Anche qui, il costo del difensore aumenta, oppure la difesa è più debole.
Un rimedio più efficace al cattivo comportamento del pm sarebbe invece il fascicolo professionale del magistrato, cavallo di battaglia di Enrico Costa. Un documento nel quale sono annotate tutte le performance positive e negative, le indagini avviate, i successi e gli insuccessi, le ispezioni subite, i procedimenti disciplinari e i loro esiti, e così via. Tutti gli eventi, e non a campione. L’esame a campione provoca dei paradossi: il soggetto che ha compiuto molti errori, può essere esaminato sui pochi casi senza errore e ricevere una valutazione positiva; il soggetto che ha compiuto un solo errore può essere esaminato solo su quello e valutato negativamente. Nello stesso modo, il campione di magistrati preso in esame può non essere significativo.
E poi qui non parliamo di statistiche, ma di valutazione professionale. Non esiste organizzazione complessa in cui non ci sia valutazione della persona, totale sull’attività e continua nel tempo. Considerazioni che valgono per requirenti e giudicanti nello stesso modo.
Carriere separate poi portano come conseguenza due corpi separati e quindi due distinti organi di autogoverno. Anche qui, un raddoppio di costi.
Infine, un accenno all’obbligo dell’azione penale. Dire, come fa il ddl, che “casi e modi” sono demandati alla legge ordinaria, significa che la maggioranza politica di turno può decidere su che cosa si deve indagare e su che cosa no. In astratto è una aberrazione, in concreto la questione è un po’ più complessa. Di fatto, non si può indagare su tutto: il tempo dei magistrati, come il tempo di tutti, è una risorsa scarsa. Si può decidere di indagare su tutto, ma di seguire delle priorità, con l’effetto pratico che quanto resta in coda non sarà indagato mai. Qualche volta, si è cercato di razionalizzare la questione, anziché lasciarla al caso o all’iniziativa individuale. Ricordo che il Procuratore capo di Torino Marcello Maddalena, anni fa, aveva emesso delle istruzioni per i suoi sostituti, in cui regolamentava per l’appunto le priorità nelle indagini.
Prima di concludere un’ultima osservazione. La politica si interessa molto di giustizia perché la giustizia si interessa molto di politica. Fanno scalpore le indagini sui politici eletti, sugli amministratori pubblici, sui grandi manager pubblici e privati. Tuttavia, queste materie sono minoritarie rispetto alla massa dei reati comuni, dai quali lo Stato dovrebbe tutelare i cittadini.
In conclusione: rispetto ai veri problemi della Giustizia, si può serenamente affermare che il disegno di legge sulla separazione delle carriere lascia il tempo che trova. Non risolve alcunché, ma non è neanche una catastrofe come lamentano i suoi oppositori. Può essere classificato nella lista delle riforme costituzionali inutili, con l’aggravante che è anche costosa. Sarebbero invece utili, e anche urgenti, proposte per innalzare il livello qualitativo della funzione giustizia. Per avere il giudice “molto saggio” di Dustin Hoffman in Kramer contro Kramer, o “il giudice a Berlino” del mugnaio di Bertolt Brecht. Un sistema giustizia su cui il cittadino possa contare.
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