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L'Editoriale della domenica. "Non si gestisce il proprio potere in nome di Dio"

di Guido Tallone


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Che razza di religione è quella che legittima, che giustifica e che offre un fondamento teologico a guerre, genocidi, “sospensione totale di aiuti umanitari”, stermini e progetti di annientamento di intere popolazioni perseguiti con lucidità e ferocia sempre più violenta?”  È questa la scomoda domanda che il teologo Vito Mancuso ha formulato su La Stampa del 13 luglio 2025. Una riflessione/provocazione che ha suscitato ampio e vivace dibattito anche in considerazione dell’inaccettabile tragedia che si sta consumando sotto i nostri occhi a Gaza, che non è minimamente lenita dagli aiuti che Israele oggi getta dal cielo come fosse manna, dopo il fuoco che da mesi ha riversato su civili inermi. Chi scrive è consapevole che nel conflitto in Palestina tutte le parti che si combattono sono sorrette da forti e vincolanti ragioni religiose: “anche i nazi-islamisti di Hamas”, ha affermato Mancuso. Ma “se l’ebraismo è la religione che promuove shalom – si domanda l’autore dell’articolo – come spiegare che oggi in Israele proprio i partiti religiosi siano i meno disposti alla pace e arrivino a proporre per Gaza una sospensione totale degli aiuti umanitari?”.

Siamo in presenza di quella perversa connessione che tiene insieme “Dio-guerra-violenza” che è presente in ogni religione e che rischia di diventare inscindibile quando religione e politica si saldano in un unico progetto condizionando uno le istituzioni dell’altro. Spezzare lo scandalo tra “Dio-guerra-violenza” e tenere distinto il piano religioso da quello politico sono le due grandi sfide a cui siamo tutti chiamati, se vogliamo interrompere lo scandalo dell’uccidere e del far morire in nome di Dio.

Le scrittrici Anna Foa e Elena Loewenthal, entrambe di origine ebraica, e il rabbino e studioso Roberto Della Rocca hanno reagito in modo diverso alle proposte di Mancuso. Suggerisco a chi si è perso queste riflessioni di provare a reperire questo intenso e interessante carteggio pubblicato su La Stampa nei giorni 13, 14, 15, 17 luglio con la replica finale di Mancuso il 18 luglio. Si tratta di temi che vale la pena non perdere di vista, approfondire, studiare e sviscerare al di là dei riferimenti politici e religiosi di ognuno di noi. I tre punti che propongo in questa riflessione son il mio piccolo contributo al dibattito.

1. David Hume (filosofo, 1711-1776) sosteneva che “gli errori della filosofia sono sempre ridicoli; quelli della religione sono sempre pericolosi. Non sono sicuro che gli errori della filosofia facciano sempre sorridere. Sono però certo – e condivido la seconda parte della massima di Hume – che errate interpretazioni religiose creino non solo pericoli per l’umanità tutta, ma vere e proprie tragedie, conflitti, sofferenze e persino guerre. Ne siamo testimoni: tutte le più importanti religioni del mondo professano essenzialmente, oltre all’amore per l’Assoluto – in qualunque sua forma – anche la pace e la fratellanza. Poi, invece, per paure, per imprecise e a volte false interpretazioni di testi sacri, per errori clamorosi su vicende umane oppure perché si vuole imporre il proprio credo, le religioni finiscono con il trasformare la pace e la fratellanza “predicata” in infinite e disumane guerre fratricide.

Mancuso ha pertanto ragione: liberare le confessioni religiose dalle componenti di male e di violenza che si annidano al loro interno è, perciò, esercizio critico indispensabile e urgente per un convivere nel segno della fratellanza. Un compito che spetta tanto a chi esercita ruoli di guida e di responsabilità nelle comunità religiose quanto ai fedeli che si riconoscono in quel credo. Ma liberare le religioni dalle quote di violenza e di male che in esse si annidano, è responsabilità anche della cultura, del mondo educativo, dei contesti formativi e scolastici per arrivare poi a coinvolgere anche chi ricopre ruoli politici e chi riveste incarichi di Governo.

Significa che l’amministratore politico deve impegnarsi perché le attività politiche, legislative e amministrative svolte per il bene comune restino non solo “distinte” dalla sfera religiosa, ma anche “separate” per evitare che codici di comportamento religiosi debbano essere imposti con la forza della legge (che è violenza!) a quanti non si riconoscono in quel “credo”. Quando in nome di Dio si impone a tutti un comportamento derivante dal proprio credo religioso o si considera l’altro un nemico perché appartenente ad altre confessioni religiose, diverso, inevitabilmente si entra non solo nel “pericolo delle religioni” esposto da Hume, ma si creano anche le premesse perché il dibattito politico degeneri in uno scontro e in un conflitto difficilmente riconciliabile.

Il Dio che si è fatto uomo in Gesù – dicono alcuni teologi cristiani – ci ha liberato dalla religione. E l’affermazione non vuole condannare in sé l’esperienza religiosa che resta sorgente di vita e di spiritualità quando è vissuta senza tradire le sue radici. Vuole però ricordare a tutti che nessuno uomo sulla Terra è autorizzato ad usare il nome di Dio per legittimare il proprio potere o per sottomettere e dominare altri esseri umani.

Impedire che la religione in quanto tale venga gestita nel modo spregiudicato o fanatico al punto da seminare morte in colui che la adotta e in chi gli sta attorno è l’imperativo urgente a cui siamo tutti chiamati. Come dice il Cardinal Ravasi, “C’è una religiosità gretta e meschina che paradossalmente allontana da Dio e dal respiro libero e gioioso del suo Spirito. È per questo che dobbiamo senza sosta sorvegliare la nostra interiorità, custodire la purezza della fede, verificarla sul metro dell’amore”.

2. Ed ecco il secondo punto: “Non nominare il nome di Dio invano[1]. È una delle Dieci Parole che a catechismo si studiava (a memoria!) per imparare i Dieci Comandamenti. A livello etico e popolare era il fondamento biblico per condannare il malcostume del linguaggio volgare che arriva alla bestemmia. Nel testo, però, non viene proibito ogni uso del nome di Dio [2], ma qualsiasi forma di uso che miri ad “impadronirsi” della forza divina in essa contenuta. Quando Dio rivela il suo nome – “Io sarò colui che sarò” (Esodo 3,14) – manifesta contemporaneamente tanto che è Presenza Fedele che non lascerà mai solo il Suo popolo, quanto che è indisponibile, inafferrabile e impossibile da possedere. Anche per noi è così: il “nome” è molto di più della cifra convenzionale data a cose, animali o persone. La conoscenza del nome immette nella confidenza, nella comunione e nell’intimità. Ma l’altro – con il Suo nome – resta pur sempre un mistero inesauribile e impossibile da manipolare e da gestire a proprio uso e consumo. Se è così per le persone più ancora, dice il libro dell’Esodo, per la realtà di Dio: il cui nome lo descrive come presenza misteriosa e inafferrabile.

Il termine “Invano” – invece – in ebraico può essere tradotto, dicono gli specialisti, con “vano, falso o inutile” ed è la parola con cui si indica anche l’idolo[3]. Collegato al divieto di scolpire immagini di “idoli”, questo precetto ricorda a Israele che non deve cadere nella tentazione di voler raffigurare Dio con l’intenzione di “catturarlo” con un “nome” magicamente pronunciato e di proprietà di chi lo può nominare.

Bella la traduzione del precetto proposta da Erri De Luca: “«Non solleverai il nome di Iod Elohìm per falsità».” Per poi aggiungere che “Di tutte le dieci frasi che si stavano scrivendo innanzi a loro, solo qui si dichiara torto irreparabile, senza remissione da parte della divinità. Profanata per sostenere il falso, questa è la bestemmia priva di riscatto… Come tutte le guerre fatte in nome di quella divinità.” (E disse, pag. 54).

E se prendessimo alla lettera questa richiesta e la smettessimo tutti di usare il nome di Dio in modo “falso” per legittimare i nostri piccoli-grandi obiettivi di affermazione, di successo, di vittoria, di prestigio o di rincorsa del consenso?

Quante volte il nome di Dio “è un velo che copre motivazioni – politiche, economiche che siano… di chi crede non solo di agire in nome di Dio, ma anche che il suo Dio gli consenta di compiere atti terribili, che non è fuori luogo chiamare “genocidari” (Anna Foa – La Stampa 14 luglio 2025). Questa è la vera bestemmia che Dio non assolve: impadronirsi del nome di Dio per gestire il potere, per avviare guerre e per dominare o uccidere esseri umani ritenuti arbitrariamente nemici. Non ci sono altre strade: ci è chiesto di continuare ad approfondire e a mettere in pratica questa severa, ma liberante laicità (“Vivere come se Dio non ci fosse” Bonhoeffer) che ci chiede di non impossessarsi – mai! – del nome di Dio, se vogliamo che le religioni non si allontanino dagli uomini e dalla Pace.

3. Nella speranza di fare un servizio ai lettori della Porta di Vetro, riporto la preghiera a Dio scritta dall’illuminista Voltaire che si trova all’interno del Trattato sulla Tolleranza (1765). Voltaire lo compone in un secolo segnato da forti contrasti ideologici e religiosi. Ed il suo obiettivo è quello di opporsi con tutte le sue forze (morali e razionali) al fanatismo intollerante che caratterizza chi aderisce ad una confessione religiosa in modo passivo e acritico. La Preghiera a Dio è una supplica a un Dio universale, non legato a specifiche religioni, per la misericordia e la tolleranza tra gli uomini.

Un testo che vale la pena conoscere e che considero una “buona” lettura in questa calda estate 2025 “sporcata” da guerre inaccettabili, intollerabili e che – vergognosamente – sono portate avanti in nome di Dio.[4]

 

Note

[1] Il testo si trova nel libro dell’Esodo ed è più articolato: “Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascia impunito chi pronuncia il suo nome invano.” (Esodo 20, 7).

[2]Chi può stabilire quando è invano quel nome sulle labbra? Se affiora in un affanno oppure in un pericolo: è invano? Con l’acqua o con il fuoco alla gola, davanti alla perdita di un affetto, un amore? Se in cima all’allegria, per entusiasmo: è invano? La solennità non intende soffocare il suo nome che risale dal petto in una voce scossa, commossa.” - Erri De Luca, E disse, Feltrinelli, Milano, 2013, pag 53).

[3] “Essi parlano contro di te con inganno, abusano del tuo nome.” – Salmo 139,20.

[4] Preghiera a Dio

Non è più dunque agli uomini che mi rivolgo; ma a te, Dio di tutti gli esseri, di tutti i mondi, di tutti i tempi: se è lecito che delle deboli creature, perse nell'immensità e impercettibili al resto dell'universo, osino domandare qualche cosa a te, che tutto hai donato, a te, i cui decreti sono e immutabili e eterni, degnati di guardare con misericordia gli errori che derivano dalla nostra natura.

Fa' sì che questi errori non generino la nostra sventura. Tu non ci hai donato un cuore per odiarci l'un l'altro, né delle mani per sgozzarci a vicenda; fa' che noi ci aiutiamo vicendevolmente a sopportare il fardello di una vita penosa e passeggera. Fa' sì che le piccole differenze tra i vestiti che coprono i nostri deboli corpi, tra tutte le nostre lingue inadeguate, tra tutte le nostre usanze ridicole, tra tutte le nostre leggi imperfette, tra tutte le nostre opinioni insensate, tra tutte le nostre convinzioni così diseguali ai nostri occhi e così uguali davanti a te, insomma che tutte queste piccole sfumature che distinguono gli atomi chiamati "uomini" non siano altrettanti segnali di odio e di persecuzione. Fa' in modo che coloro che accendono ceri in pieno giorno per celebrarti sopportino coloro che si accontentano della luce del tuo sole; che coloro che coprono i loro abiti di una tela bianca per dire che bisogna amarti, non detestino coloro che dicono la stessa cosa sotto un mantello di lana nera; che sia uguale adorarti in un gergo nato da una lingua morta o in uno più nuovo.

Fa' che coloro il cui abito è tinto in rosso o in violetto, che dominano su una piccola parte di un piccolo mucchio di fango di questo mondo, e che posseggono qualche frammento arrotondato di un certo metallo, gioiscano senza inorgoglirsi di ciò che essi chiamano "grandezza" e "ricchezza", e che gli altri li guardino senza invidia: perché tu sai che in queste cose vane non c'è nulla da invidiare, niente di cui inorgoglirsi.

Possano tutti gli uomini ricordarsi che sono fratelli! Abbiano in orrore la tirannia esercitata sulle anime, come odiano il brigantaggio che strappa con la forza il frutto del lavoro e dell'attività pacifica! Se sono inevitabili i flagelli della guerra, non odiamoci, non laceriamoci gli uni con gli altri nei periodi di pace, ed impieghiamo il breve istante della nostra esistenza per benedire insieme in mille lingue diverse, dal Siam alla California, la tua bontà che ci ha donato questo istante.

 

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