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L’EDITORIALE DELLA DOMENICA. "Dal just in time alla politica delle formiche

di Emanuele Davide Ruffino


Negli ultimi anni si è registrata un’affannosa ricerca di soluzioni veloci nell’affrontare le specifiche situazioni senza una visione globale dei problemi, nel senso che si è cercato di massimizzare alcuni aspetti che presentano un impatto immediato sul risultato, sia a livello aziendale che di politica economica. Ne è conseguito che si è andati ad estremizzare dei comportamenti, a cominciare da una ricerca forsennata dell’utile che, in alcuni casi, ha rischiato di portare al fallimento le stesse imprese o compromettere lo sviluppo di una nazione per primeggiare in una qualche tornata elettorale.


Il dominio dell’immediato

La globalizzazione, riducendo le tempistiche con cui si viene a conoscenza degli eventi, porta a concentrare l’attenzione sul presente, a scapito di una proiezione su come disegnare il futuro: a livello politico il venir meno delle lotte ideologiche, che hanno caratterizzato il Secolo Breve, ha incentrato l’attenzione sull’immediato, tant’è che molte propagande adottate dai partiti politici tendono a mettere in risalto l’andamento dell’ultimo dato economico o l’andamento del trend rivelato sulla criminalità o sull’immigrazione o semplicemente dell’ultimo sondaggio. Ne consegue che a fronte dell’aumento di un fattore produttivo, anziché cercare di dotarsi di prodotti succedanei, si pretende un intervento pubblico per annullarne gli effetti, con il rischio che questi si manifestino, nel proseguo del tempo, in forme esponenziali e che ciò comporti una serie inimmaginabile di problemi derivanti dallo sfregio delle leggi di mercato. Pie illusioni che la gente vuole sentirsi raccontare, ma che non risolvono i problemi.

A livello aziendale, la ricerca dell’utile nel breve periodo, con il dover pubblicare report che si susseguo a ritmo incalzante per definire i possibili andamenti, rischia di distrarre dalla necessità di predisporre programmi di lungo periodo, in grado di anticipare eventuali crisi impreviste. Testimonianza di questo estremismo sono le esasperazioni delle politiche del just in time che, nell’intento di ridurre i costi di produzione, hanno portato ad una riorganizzazione dei processi produttivi prevedendo il rifornimento del materiale di trasformazione e di ogni altro input (comprese le risorse umane) esattamente nel momento in cui se ne dimostri la necessità, fino al punto di annullare la necessità del magazzino e, di conseguenza, i costi legati all'accumulo di scorte. Concetto economicamente accattivante se si possono controllare tutti gli anelli della filiera di produzione, ipotizzando l’esistenza di magazzini virtuali altamente affidabili. Altrimenti si corre il rischio di trovarsi a trattare con tanti “momentanei monopolisti” che inevitabilmente tendono ad approfittare della loro posizione.


I nuovi parametri valutativi

La ricerca dell’utile, motore della sviluppo e della crescita, è un concetto che va sviluppato nel lungo periodo, quale condizione per la sopravvivenza dell’impresa stesa. Gli azionisti di una società o le politiche del settore pubblico (ammesso che questi soggetto siano ancora in grado di controllare il management cui sono state affidate le aziende) devono orientare prospetticamente il loro giudizio, altrimenti si corre il rischio di rinunciare ad investire perché questa è un’operazione che, nell’immediato, sottrae la possibilità di distribuire dividendi o di raggiungere gli obiettivi che l’organismo sovraordinato ha attribuito alla struttura (l’ansia del manager di accontentare chi lo ha nominato, rischia d’indebolire le potenzialità programmatorie).

L’attenzione al contingente ha portato il mondo economico a concentrarsi, non più sui dati reali, ma sui profit warning (allarme sugli utili) e di vincolare le scelte economiche solo su questo dato. Il comunicare al mercato, in ossequio al principio della trasparenza, una revisione degli utili anche prima della pubblicazione delle trimestrali, rappresenta sicuramente un dovere etico, prima ancora che economico, ma non deve monopolizzare le possibilità di analisi e valutazione. Il “preparare gli azionisti” al fatto che gli utili siano inferiori alle attese o pubblicare notizie ottimistiche per invogliare i potenziali investitori ad acquistare un titolo azionario, può distogliere dalle reali potenzialità dell’azienda. La pandemia e la guerra alle porte dell’Europa stanno riportando al centro degli studi economici le simulazioni del tipo what if, per verificare come le singole unità produttive si muovono al variare degli elementi del sistema: ciò comporta lo spostare le attenzioni valutative di un’azienda sulle sue capacità di adattamento, fattore che ha caratterizzato il successo delle aziende in questo periodo tumultuoso.


Il settore pubblico

Se è accettabile l’attenzione del privato, specie delle piccole e medie imprese, nella ricerca dell’utile immediato per ragioni di sopravvivenza, il settore pubblico dovrebbe essere maggiormente impegnarsi in azioni anticicliche, al fine di correggere la domanda nei momenti di recessione e gestire in modo ordinato le fasi di sviluppo con appropriati investimenti. La funzione anticiclica rischia di annacquarsi se ci si muove solo per rispettare i vincoli di bilancio: questi sono un forte richiamo alla realtà ma non possono diventare essi stessi il fulcro delle politiche economiche se non quando le conseguente di tante finanze allegre impediscono, di fatto, ogni possibilità di manovra. L’accumulo di deficit perseguito negli anni passati obbliga oggi una rigidità sui conti che non permette molte divagazioni: si è passati dal 28% del 1964 al 56% del 1980 al 159,8% di oggi, complice anche la riduzione del denominatore costituito dal PIL (valore record raggiunto solo nel 1920, periodo certamente da non replicare!). La media dei Paesi Europei si aggira intorno al 100% (l’Estonia e il Lussemburgo i più virtuosi, Grecia e Italia i più indebitati) ma se si considera il periodo condizionato dal Covid, il deficit italiano è cresciuto del 21%: solo la Spagna ha fatto di più con il 26,3% mentre l’Irlanda segna solo un più 0,4%. Nel Bel Paese la questione del debito assume sempre più un vincolo imprescindibile, sia nel pubblico che nel privato, dove le imprese si caratterizzano spesso per essere sottocapitalizzate e quindi maggiormente esposte alle fluttuazioni dei tassi di interesse, gestite dalla BCE. Nel lungo periodo dovrebbe prevalere la spesa per investimenti sulla spesa corrente: per evitare possibili distorsioni, in alcuni casi, si è anche ipotizzato di vincolare i finanziamenti agevolati a specifiche forme di investimento, escludono l’assunzione di personale per indurre ad interventi di ristrutturazione.

Con questi numeri diventa difficile definire il concetto di “Debito buono” per sottolineare che si possono anche sfondare i parametri, se ciò permette una reale crescita economico-sociale, ma viene da chiedersi se il debito buono è tale solo se non si superano certi limiti, che dovrebbero essere fissati da chi poi dovrà sostenerne il peso (chi lavora) e soprattutto le future generazioni, che oggi non possono essere presenti nel processo decisionale.





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