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L'anniversario. Cento anni fa nasceva Ugo Pecchioli

di Michele Ruggiero



Ugo Pecchioli, ultimo a sinistra, con  Pecchioli, Giuliano Pajetta, Sandro Curzi, Luigi Pintor, Pietro Ingrao ed Enrico Berlinguer, 1965. Wikipedia
Ugo Pecchioli, ultimo a sinistra, con Giuliano Pajetta, Sandro Curzi, Luigi Pintor, Pietro Ingrao ed Enrico Berlinguer, 1965. Wikipedia

Ho deciso di non essere ripresentato fra i candidati. Nel pieno della svolta che vede le forze di progresso candidarsi al governo del Paese, avverto la necessità che si dia impulso alla formazione di nuovi dirigenti, mettendo alla prova giovani compagne e compagni. Un modo oltretutto per dare ulteriore visibilità alla nostra identità di grande forza rinnovatrice. La rappresentanza non può essere una sorta di appannaggio: l'avvicendamento è la chiave stessa della democrazia. La conclusione del lavoro parlamentare non vedrà però minimamente scalfito il mio impegno per il partito. Ci sono tanti modi per dare una mano, ma intanto in questo momento il compito preminente è uno solo: sarò con i compagni, soprattutto di Torino, nella difficile battaglia per vincere le elezioni. A ciò sollecita anche il persistere anacronistico di un così rozzo attacco contro di noi, che può avvalersi anche del dissolversi di una memoria storica che non è solo conoscenza dei fatti, ma crescita delle risorse di fondo per procedere con lucidità, passione, nervi saldi. Non è un brontolio da ‘vecchia guardia’. Su queste questioni avrò occasione di ritornare, anche con giovanile aggressività.

Era il gennaio del 1994, quando Ugo Pecchioli inviò all’allora segretario del Pds, Achille Occhetto, la sua rinuncia a ripresentarsi candidato alle elezioni. Era una decisione coraggiosa, che implicava, al di là dei suoi intendimenti a breve scadenza, il punto finale della parabola politica di uomo che oggi avrebbe compiuto un secolo di vita. E in quella lettera a Occhetto, è possibile che abbia rivisitato, cedendo forse per una volta all'emozione, alla sua vita, intensa, vissuta con lucido coraggio.


Protagonista nella Resistenza

Comandante partigiano appena ventenne e insignito di due croci al valor militare, dirigente nazionale della Federazione giovanile comunista negli anni Cinquanta accanto ad Enrico Berlinguer, al vertice della Federazione del Pci di Torino nel decennio successivo, senatore della Repubblica dal 1972, a Botteghe Oscure con Berlinguer segretario generale del Pci, è l'elenco dei passaggi di Ugo Pecchioli, figlio della media borghesia torinese, nato il 14 gennaio 1925 “da Dante, artigiano gioielliere di tendenze anarco-socialiste e Gioconda, insegnante di pianoforte cattolica osservante”, come si legge nella biografia del Senato.[1]

Ma, nell’immaginario collettivo- sostenuto da un cliché imposto, ancorato vorremmo dire, dalla pubblicistica, a partire dagli anni del compromesso storico affacciato da Enrico Berlinguer sulle pagine di Rinascita nel 1973, dopo la sollevazione militare in Cile, l’11 settembre del 1973 - Ugo Pecchioli era ed è stato “il ministro dell'Interno ombra”, cui il Pci aveva delegato i “problemi dello Stato”. Questioni parecchio estese, che spaziavano da analisi militari ai servizi segreti e alla sicurezza del Paese, viste sul fondale di rigurgiti fascisti e venate da tentazioni autoritarie, dal tritolo dell’eversione nera e dalle pistole del terrorismo rosso, dalla strage di piazza Fontana alla seconda metà degli anni Ottanta, dalla Strategia della tensione agli Anni di piombo.


Responsabile della Sezione problemi dello Stato

“Ministro dell'Interno ombra del Pci”: definizione di prestigio diventata etichetta, che però nel tempo aveva contribuito a mettere anche in ombra, presso il grande pubblico, e forse anche all'interno delle sezioni comuniste, almeno tra i più giovani iscritti, le qualità e l’esperienza politica - al netto degli errori - di Ugo Pecchioli su cui si poggiava, peraltro, propria l'etichetta. Dall'assenza di conoscenza, ne discendeva, così, a secondo dei fini, quasi dettato da un riflesso pavloviano, un uso che finiva per essere strumentale in misura o svalutante o denigratorio nella dialettica politica, in particolare il portato della critica dell’estremismo di sinistra, con il quale Ugo Pecchioli non era stato tenero, non appena si erano svelata la predisposizione alla violenza di piazza e all’uso della P38 nelle manifestazioni pubbliche. Una reductio ad unum cui aveva tentato di riparare nel 1980, nel mezzo di una impressionante ripresa omicida del terrorismo rosso, un'intervista di Lotta continua "al compagno Ugo Pecchioli - responsabile della Sezione problemi dello Stato del PCI - invitato a parlare del dramma del terrorismo; sì, proprio dal giornale che è sempre stato espressione delle ambiguità dell'estremismo sulla questione della violenza, e anche dei suoi attacchi frontali alle organizzazioni del movimento operaio. Il risultato è un colloquio ricco di domande anche provocanti, « scomode ». che danno lo spunto per un discorso ampio e senza veli".

La "riparazione" avrebbe avuto una sorta di completamente con una lettera di Luigi Manconi pubblicata dal Manifesto proprio nei giorni successivi alla morte di Pecchioli, il 13 ottobre del 1996. Manconi, all’epoca senatore, dopo essere stato tra i dirigenti di maggiore prestigio intellettuale di Lotta continua, uno dei gruppi più strutturati dell’estrema sinistra negli anni Settanta, scrisse:


Tutti hanno insistito sul suo ruolo di "ministro degli interni" negli anni del terrorismo e della solidarietà nazionale. Tutti hanno parlato della sua fama di "falco" nei confronti delle tendenze anti-sistema che si manifestarono all'interno dei movimenti di contestazione politica e sociale. Ma questa è solo una parte della verità (e della biografia di Pecchioli). L'Unità ha scritto a proposito di quegli anni: "un periodo travagliato, nel corso del quale - come lo stesso Pecchioli avrebbe poi riconosciuto - non mancarono ritardi, errori, difficoltà a comprendere cosa stesse accadendo tra i giovani che simpatizzavano con i brigatisti, o all'interno dello Stato, incancrenito da decenni di sovranità limitata". "Pecchioli riconosceva che una maggiore apertura del Pci nei confronti delle istanze dei giovani avrebbe potuto impedire che alcuni potessero scegliere la lotta armata". Forse furono anche queste considerazioni che, dieci anni dopo, indussero Pecchioli a firmare la proposta di legge per la concessione dell'indulto agli ex-terroristi. E più volte, in circostanze private e pubbliche, l'ho sentito pronunciarsi in tal senso. E' un dettaglio, forse, agli occhi dei più: ma vi leggo una capacità di riflettere e di capire, che non è di tutti.[2]


Un carattere "freddo"

Capacità di riflettere e di capire che arrivava da lontano, da quei giorni all’indomani del 25 luglio 1943, alla caduta del fascismo, e dell’immediato 8 settembre, con il crollo dello Stato dopo l’armistizio, in cui studente liceale, in vacanza a Cogne, in val d’Aosta, non esitò a espatriare in Svizzera per sottrarsi ai rastrellamenti, per poi ritornare in Italia nelle file della Resistenza e partecipare ai primi combattimenti nelle valli aostane contro i nazifascisti e poi in Val di Lanzo. Chi partecipò insieme con lui in quei mesi di temperie, di sopravvivenza portata all’estremo limite in una guerra asimmetrica e diseguale per forze in campo e risorse materiali, lo descrisse come un combattente “freddo”, “di ghiaccio”, intuitivo e rapido nel dare ordini senza essere scavalcato da emozioni che in quel contesto avrebbero anche potuto rivelarsi o pericolose o di nocumento per le sorti del gruppo. Un vero capo militare, anche per il suo indubbio phisique du role. Una dote che non sfuggì al Cln che lo nominò prima capo di stato maggiore della 77^ brigata 'Titala', poi ispettore di divisione nei giorni della liberazione di Torino.

Quasi un automatismo fu la sua adesione al Partito comunista italiano. Ma chi lo conobbe bene ne ricordava anche le sue riserve sulla rigidità dell’apparato politico, per quanto temperato dall’intellettualismo di Palmiro Togliatti, e sull’ideologia marxista proto-sovietica che confliggevano con la sua natura liberale, che si era nutrita sui banchi del liceo d’Azeglio di Torino. Riserve confinate nel retrobottega del suo pensiero politico, ma destinate a riemergere in superficie nel 1956, per l’ingresso dei carri armati con la stella rossa a Budapest, a diventare esplicite in linea con il Pci guidato da Luigi Longo nel 1968, con l’invasione dell’Armata rossa e del Patto di Varsavia in Cecoslovacchia, e vera e propria condanna dell'intervento sovietico in Afghanistan nel 1979.


Nella Fgci con Enrico Berlinguer

Prima, durante e dopo quelle date, c’è il Pecchioli promotore del Fronte della Gioventù con Gillo Pontecorvo, fratello del fisico Bruno e futuro regista di film significativi di un’epoca, da Kapò (1960) a La battaglia di Algeri (1966) e, soprattutto, il dirigente della Fgci eletto nella segreteria nazionale al XII congresso del 1950, a Livorno, insieme con Marisa Musu, Bruno Bernini e Silvano Peruzzi, leader Enrico Berlinguer e in direzione, negli anni successivi, con Alfio Basaglia, Sergio Cavalieri. Luciana Franzinetti, Giannetto Magnanini, Walter Malvezzi, Enzo Modica, Anna Spaggiari Renzo Trivelli.

Sono anni quelli in cui la sua figura si delinea più marcatamente sul piano nazionale della politica, in cui il passato di comandante partigiano non è più dominante, ma deve fare spazio al ruolo di dirigente della Fgci, che interviene su più temi prioritari per la società italiana, come quello della scuola e dell’università, al centro della sua relazione al Comitato centrale nel 1954. In quella riunione, indica la strada del “rafforzamento e l’unità del movimento studentesco” e propone una grande inchiesta nazionale sull’insegnamento “condotta dalle organizzazioni studentesche e sostenuta da tutte le organizzazioni democratiche per giungere a puntualizzare, davanti a tutto il Paese, i termini di una radicale riforma della scuola”. E’ una proposta lungimirante, condivisa pubblicamente e con entusiasmo da un altro dirigente della Fgci, destinato a far parlare molto di sé nel mondo della cultura, del giornalismo e della politica, Sandro Curzi.

Pecchioli, Curzi e altri giovani della Fgci saliranno agli onori della cronaca sulle pagine de l’Unità anche per altre circostanze, per la verità abituali negli anni Cinquanta: l’assalto alle sedi comuniste di fascisti e affini. In uno di quelli, il 10 marzo del 1955, il quotidiano racconta che “mentre infuriava la rabbia devastatrice delle squadracce, richiamati dalle grida e dal rumore dei vetri infranti, sono usciti dalla sede del Comitato centrale del partito alcuni compagni, tra i quali Enrico Berlinguer, Ugo Pecchioli. Giancarlo D'Alessandro, Sandro Curzi… I fascisti, alla vista dei compagni che si lanciavano ad affrontarli si sono dati gloriosamente a una fuga precipitosa. Prima di svoltare l'angolo, due degli assalitori hanno fatto in tempo a scagliare contro i compagni che li affrontavano due rozze bombe, fabbricate con un tubo di latta e una carica di esplosivo...”.

A consuntivo, la Fgci si rivela, per quella generazione di militanti e dirigenti di primo piano, un contenitore di enormi dimensioni per quantità e qualità di relazioni e ricchezza intellettuale. Un’esperienza che Ugo Pecchioli conclude a metà degli anni Cinquanta, sommando a un’attività frenetica al suo interno, anche la direzione della rivista Pattuglia il settimanale della gioventù democratica italiana, dalle cui colonne lancia nel gennaio del 1951 un appello sotto forma di lettera aperta prof. Carlo Carretto, presidente dell’Azione Cattolica, per la messa al bando della propaganda di guerra sui giornali.


Segretario della Federazione di Torino

La pace è una priorità dell’agenda politica, in un mondo plumbeo che assiste con trepidazione allo scontro militare in Corea tra Usa e Cina e la minaccia sospesa dell’uso dell’atomica. Nella risposta dei cattolici, affidata a Vladimiro Dorigo, Pecchioli scopre la distanza ideologica tra i due mondi, tra le due chiese, l’impossibilità del dialogo nella divisione della Guerra fredda. Ne prenderà atto nella contro-risposta, ma non lascerà mai cadere la prospettiva di ritornare sull’argomento che si riproporrà a metà degli anni Sessanta, con la guerra in Vietnam, in una situazione internazionale e sociale mutata, e con una Chiesa cattolica che ha respirato aria nuova con l'apertura del Concilio Vaticano II e la spiritualità di Papa Giovanni XXIII.

Il ritorno a Torino nel 1955, in una città di cui va fiero - se ne ha un'eco anche in una battuta dell'attore che lo interpreta nel film La grande ambizione di Andrea Segre sulla figura di Berlinguer - avviene in uno dei momenti più travagliati per il partito, con la federazione torinese scossa dalla sconfitta della Fiom alla Fiat, la “caccia alle streghe” anche nelle aziende collegate, la progressiva caduta del tesseramento e la conseguente chiusura a riccio nei fortilizi delle sezioni per impedire che la sconfitta si tramuti in crollo. Ma è anche una fase in cui il Pci di Torino, con il contributo della redazione de l’Unità, dal direttore Luciano Barca ad Adalberto Minucci e Diego Novelli, non esita a cambiare le lenti per leggere la realtà industriale e la società che lo circonda con un approccio meno settario e dogmatico. E' un'operazione tutt’altro che indolore nei rapporti politici come in quelli interpersonali, di cui Ugo Pecchioli si eleva come uno dei garanti più autorevoli.

L’elezione a segretario della federazione nel 1958 ne è la riprova e la fiducia conquistata è anche l'effetto della fiducia che ripone Palmiro Togliatti nel rinnovamento del gruppo dirigente torinese. Al Comitato centrale del marzo 1960, è proprio Pecchioli, infatti, che dalla tribuna offre uno scenario politico-sindacale in cui si rilevano segnali positivi “all’interno della Fiat stessa, pur permanendo grave lo stato delle organizzazioni di classe”, mentre “si accentuano tra i lavoratori situazioni di malcontento” e cresce la convinzione che soltanto “una coerente politica unitaria può arrestare il processo di decomposizione sindacale e difendere con efficacia il potere contrattuale”.


Responsabile d'organizzazione

Gli anni Sessanta portano Pecchioli ai vertici del partito con il suo ingresso in direzione. E il suo nome è sempre più presente nelle delegazioni che visitano paesi stranieri. Morto Togliatti, segretario Longo, nella discussione pre-congressuale del 1969, è in prima fila nel difendere il carattere di massa del Pci, ma a un tempo denuncia che la priorità “non è acquisita fino in fondo”. Frase predittiva, che anticipa la sua chiamata a responsabile d’organizzazione, con cui due anni dopo, afferma che per il tesseramento del Pci "si profila qualcosa di più della buona tenuta del ’69 e del ’70, con un consistente passo in avanti".

Un passo avanti per il partito e uno doppio per lui che nel marzo del 1972, nel Congresso di Milano, nei giorni del cadavere dell'editore Giangiacomo Feltrinelli ritrovato ai piedi di un traliccio di Segrate, viene ufficializzato il suo ingresso nella Segreteria e nell’Ufficio politico del Pci, con l’elezione a segretario generale di Enrico Berlinguer e un organismo di vertice composto anche da Paolo Bufalini. Armando Cossutta. Fernando Di Giulio, Carlo Galluzzi e Giancarlo Pajetta.

Il 1972 è per Ugo Pecchioli anche l’anno dell’elezione a Palazzo Madama, senatore della Repubblica, l’anno di un lavoro costantemente a contatto con Enrico Berlinguer, a due decenni di distanza dalla comune esperienza nella Fgci, l’inizio di una storia che segue da vicino e da protagonista, evento dopo evento, impronta dopo impronta, quella del nostro Paese. Diventa l’interlocutore dei vertici militari, della Polizia, segue attraverso l’attività parlamentare le complesse questioni legate ai servizi segreti, è uno dei “padri” della riforma del Regolamento di disciplina delle Forze armate, e della legge che riduce la durata del periodo di leva. Ed è lui a firmare l’editoriale su l’Unità del 4 novembre 1975, con cui invita il Paese, nel giorno dedicato alle Forze armate, a riflettere “sul problema ancora aperto del rinnovamento democratico dell’organizzazione militare e sulla necessità di consolidare un rapporto vivo fra esercito e popolo”. Intervento non casuale che mira a riassumere i rischi corsi dalla democrazia con l’avventura del tentato golpe Borghese (8 dicembre 1970) e le fibrillazioni vissute dall’esercito con le manovre del golpe bianco partorite dall’ambasciatore Edgardo Sogno (primavera-estate 1974), mentre crollavano i regimi fascisti in Portogallo e in Grecia.


"Mai rancoroso verso il nuovo"

Degli anni successivi, che si possono classificare per titoli alle voci “terrorismo”, “stragi mafiose”, “Gladio”, “Svolta di An”, vi sono alcuni echi, più che suggestivi, nei precedenti articoli di Mirella Barazzone e di Rocco Larizza.[3] Di certo, pur mantenendo l’abituale freddezza, provò un dolore intimo alle critiche che gli piovvero per la sua partecipazione al congresso di Alleanza Nazionale a Fiuggi, alla vigilia della commemorazione a Courgnè di Walter Fillak, l’animatore della Resistenza nell’Appenino ligure e commissario politico delle Brigate Garibaldi, vittima di una delazione ed ucciso dai fascisti, suo caro amico. Era stato proprio Pecchioli, insieme con Giulio Einaudi, a riportarlo in Italia dalla Svizzera, dove si era rifugiato dopo un periodo di carcere. Critiche emotivamente comprensibili, lucidamente immotivate, perché in pochi compresero che soltanto il prestigio di un protagonista della Resistenza avrebbe potuto dare serietà, nell’interesse stesso della democrazia, al rinnovamento promosso dagli eredi del Movimento sociale italiano e dagli epigoni del fascismo repubblichino.

Del resto, per usare le parole di Massimo D'Alema, Pecchioli era un uomo rigoroso e aperto, "mai rancoroso verso le cose nuove del mondo". E noi aggiungiamo anche intellettualmente generoso. Il 19 febbraio del 1996, scrisse allo storico Giuseppe Vacca: “Caro Beppe, confermo la mia volontà di donare alla Fondazione Istituto Gramsci di Roma le carte, la corrispondenza e i materiali documentari che compongono il mio archivio di lavoro. I criteri di consultabilità dei documenti saranno da me concordati con la Direzione della Fondazione al termine del lavoro di riordinamento del fondo”. In un appunto aggiunse: “Per oggi (19 febbraio 1996) vi consegno solo una parte dei faldoni (quelli già rivisti). Tenete conto che altre carte sarà bene inserirli in questi faldoni. Si tratta di carte di un certo valore che ora ho sparse, alla rinfusa. Per il resto del materiale (una 30ª di faldoni) ve li darò non appena avrò modo di riesaminarli”.


Note

[2]Luigi Manconi, Pecchioli e l'indulto. Una lettera in https://archiviopubblico.ilmanifesto.it/Articolo/1996014453

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