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ELEZIONI 2022 - Visione politica inesistente nella débâcle del Pd

di Stefano Marengo


Poco meno di undici anni fa veniva varato il governo Monti. Oggi, con la vittoria netta della destra che si identifica in Giorgia Meloni, ha termine il governo Draghi. Nel lasso di tempo che è intercorso tra questi due esecutivi, il Partito democratico e il centrosinistra hanno gettato i semi della loro débâcle. Il voto del 25 settembre, infatti, non ha fatto che approfondire una crisi che era in atto già da tempo, e di certo per uscirne non basteranno le buone intenzioni e la stanca ritualità di un congresso, dopo le patenti dimissioni di Enrico Letta, che parla solo al notabilato politico e alle sue filiere di corrente.


Non è un caso che questa parabola abbia avuto nell’adesione incondizionata del Pd a due governi tecnici alcuni dei suoi punti qualificanti. In entrambi i casi, la dirigenza dem ha dimostrato di non essere in grado di emanciparsi dall’ideologia della fine delle ideologie, ossia, più precisamente, dalla concezione che data dai primi anni Novanta secondo la quale, in definitiva, il mondo e la società non sono organismi vivi da interpretare politicamente, ma oggetti da amministrare secondo il dettato della tecnica. Si è voluto credere, in altri termini, che la tecnica fosse qualcosa di neutrale, scordandosi quell’approccio “amministrativistico” ha le sue radici nei dogmi ideologici del monetarismo e del neoliberismo.


In questo modo il centrosinistra ha dimenticato la dimensione politica, ossia il compito della di rappresentare di porzioni di società, la dialettica degli interessi che la segnano e l’onere, che ne scaturisce, di dotarsi di una visione del mondo e di un pensiero strategico. Questo, in un paradosso solo apparente, è stato vero anche quando, negli anni del renzismo, la politica sembrava ai più aver riguadagnato il terreno perduto. Infatti, che cosa ha rappresentato Matteo Renzi se non l’incarnazione meglio riuscita, sebbene fuori tempo massimo, di quella terza via blairiana e clintoniana che per lungo tempo è stata l’epitome del tecnicismo in sostituzione della politica?


A partire da questa deriva, la dimensione del pensiero e dell’azione politica, nel Partito democratico e nel centrosinistra, è stata ulteriormente ridotta a tattica elettoralistica, a manovra per l’occupazione di posti di potere - il potere per il potere - con un’intera classe dirigente che ha di fatto smesso di curarsi della propria coerenza ideale per far derivare la propria legittimazione dalla “competenza”, dal “pragmatismo”, dalla “capacità di governo”, dal “senso di responsabilità”. Tutte virtù, beninteso, che il notabilato dem si è attribuito da solo, con una capacità di autoreferenzialità inferiore soltanto a quella esilarante di alcuni esponenti del Movimento Cinque stelle, oggi fuori dal Parlamento, su cui si sprecano vignette di dileggio e video offensivi.


La legislatura che si è appena conclusa è la fotografia inesorabile di questa vicenda. Nel corso di quattro anni il Pd ha rivoluzionato per ben quattro volte la propria linea politica – prima opposizione senza se e senza ma al governo gialloverde, poi governo politico con i Cinquestelle, poi sostegno incondizionato, ovviamente per “senso di responsabilità”, al governo del tecnico Draghi, infine rottura senza appello con i pentastellati. Tutto ciò è avvenuto senza che abbia mai avuto luogo una reale discussione interna - un metodo facilitato dal progressivo esautoramento delle istanze di base -, senza una prospettiva di lungo respiro, senza una visione del mondo da coltivare e un progetto di società da realizzare. Stare al governo è stato l’unico imperativo che si è seguito, l’amministrazione di un’esistente presentato senza alternative l’unica vocazione a cui si è dato ascolto.


È così che, com’era prevedibile, il Pd e il centrosinistra si sono ritrovati senza un’identità e privi credibilità, incapaci di leggere e comprendere la società italiana e di rispondere ai suoi bisogni. In questo contesto la vittoria della destra non è un evento sorprendente, ma la cosa più scontata che potesse esserci. Il trionfo personale della Meloni e del suo partito non è dipeso soltanto dalla sua capacità di creare mobilitazione, ma anche dal fatto che i suoi avversari, senza accorgersene, e chi se ne è accorto si è girato dall'altra parte per non rischiare il posto, hanno abbandonato il campo di battaglia, dimenticando che la politica è un campo di battaglia nell'interesse della collettività e non un salotto nell'esercizio e gestione dei propri interessi.

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