Dietro l'obiettivo, lo sguardo etico di Paolo Siccardi
- Marco Travaglini
- 21 ore fa
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di Marco Travaglini

Il Centro Interculturale della Città di Torino di corso Taranto ha ospitato ieri, 6 novembre, un partecipato incontro con il giornalista e fotoreporter torinese Paolo Siccardi. L’evento, intitolato "Dai teatri di guerra alle rotte dei migranti", partendo da alcuni scatti realizzati nell'arco della sua più che trentennale carriera, ha consentito a Siccardi di raccontare il suo personalissimo percorso umano e professionale tra memorie, immagini e storie raccolte nelle zone di conflitto di tutto il mondo con l’intento, più volte dichiarato e coerentemente perseguito, di dare voce a tutte quelle persone dimenticate dalla cronaca e cancellate dalla storia. Dagli anni ’80 in poi il fotoreporter torinese (oggi sessantatreenne) ha costruito il suo linguaggio fotografico con cui leggere e interpretare la realtà, diventato in quest’occasione il racconto di una lunga esperienza di fotoreporter ai quattro angoli del mondo, indagando con la sua macchina fotografica realtà che conosce bene per averle a lungo frequentate, partendo dalle situazioni e dai luoghi dove sono tornati, dopo l'ultimo conflitto mondiale, i terribili bagliori della guerra.
Seguendo le orme di Robert Capa, uno dei più grandi maestri della fotografia, testardamente ispirato fino alla fine dall’idea che se le foto non sono buone è perché “non eri abbastanza vicino", anche lo sguardo di Siccardi è sempre stato il più vicino possibile alla realtà che voleva rappresentare, limitando al minimo i filtri tra fotografo e soggetto. I suoi scatti propongono immagini spesso asciutte, centrate sulla sofferenza, la miseria e il caos che una guerra porta ovunque con sé. In fondo, nel suo lavoro, ha messo in pratica l'insegnamento di un altro grande, quell’Henri Cartier-Bresson sostenitore della tesi che “un buon fotografo deve mettere sulla stessa linea di mira il cuore, la mente e l'occhio". Ed è ciò che ha fatto con il suo codice di scrittura per immagini, con uno stile e una sensibilità che l'ha distinto e lo distingue da molti altri che hanno preferito le velocissime spedizioni di due o tre giorni con molto denaro a disposizione, giubbotti antiproiettile in prestito e una buona dose di cinismo nella ricerca dello scoop a tutti i costi.

La conferma è testimoniata dai tanti lavori, dalle mostre (come quella organizzata da La Porta di Vetro al Mastio della Cittadella nell’inverno del 2023 sulla lunga notte di Sarajevo), dai reportage pubblicati sulle testate più prestigiose (Il Venerdì di Repubblica, Famiglia Cristiana, Time, Der Spiegel, The Guardian, Geo Japan e tante altre), da libri come il bellissimo e quasi introvabile Una guerra alla finestra, testo fotografico che documentava i suoi reportage a Sarajevo e nei Balcani più di trent'anni, edito dal Gruppo Abele. Paolo Siccardi, all'epoca trentenne fotoreporter con già all'attivo numerosi servizi e reportage in giro per il mondo, in quella sessantina di pagine con trentasette scatti che documentavano il dramma della gente nella ex Jugoslavia e in particolare a Sarajevo, interrogava le coscienze quasi in presa diretta, richiamando l'attenzione in quel 1993 sul conflitto che infuriava da quasi tre anni sull'altra sponda dell'Adriatico, nel tempo in cui Sarajevo nel cuore della Bosnia, la regione più jugoslava della terra degli Slavi del sud, era stretta d'assedio e si preparava al secondo, terribile inverno di sofferenze.
L'occhio della sua macchina fotografica inquadrava la realtà, indagava la vita che resisteva testardamente alla violenza, scavava in quella tragedia dall'interno, si soffermava sulle istantanee della vita di tutti i giorni. Da quel tempo e come allora le sue foto da Gaza ad Aleppo, dall’Afghanistan ai paesi dell’Africa, dall’America latina al Donbass dell’Ucraina sud-orientale hanno documentato molte realtà, migrazioni e conflitti. I suoi scatti vanno guardati senza fretta per coglierne l'essenza. Come diceva Bicic, giornalista nato a Pola e corrispondente del Corriere della Sera negli anni del conflitto balcanico, "bisogna lasciare che quelle immagini entrino in noi da sole, senza forzature" per avvertire il dolore di cui sono impregnate, per cogliere il racconto "dell'assurdità della sofferenza, della distruzione e dell'ingiustizia".
Davanti al pubblico attento e partecipe Siccardi ha potuto riassumere quel lavoro sviluppatosi nei decenni che narra il caos che produce morte e pulizia etnica, le migrazioni in cerca di speranza, cibo e pace per sfuggire alle violenze e alle carestie, le corse a perdifiato per sfuggire al tiro dei cecchini e alle bande criminali ai quattro angoli del mondo, le file per l'acqua e il pane ma anche i giochi dei bambini, la voglia di vivere che non si fa soffocare e prova a resistere in condizioni spesso oltre il limite. Se c’è una cosa che si capisce bene del suo lavoro e di questi scatti d’autore è che per aiutano a comprendere e forse (perché la speranza in fondo è davvero l'ultima a morire...) a diventare un poco migliori e meno disattenti su ciò che ci accade attorno. In fondo è questa l'unica ragione etica nel lavoro di un buon fotoreporter.













































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