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Dietro il caso di Lucia, una violenza diffusa e culturale

Aggiornamento: 16 minuti fa

di Emmanuela Banfo


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Esiste una violenza “giusta” perché il tuo ex marito è tanto, tanto, arrabbiato che ha bisogno di sfogarsi? Esiste una violenza, fatta di insulti, minacce e che infine sfocia in un pugno che invalida un occhio e ti sfigura il volto, ma che, in fondo, non ti ha fatto così male? Esiste una violenza legittimata da sentimenti, forti, sconvolgenti? Per alcuni giudici esiste e va compresa, assolta. È al vaglio della Commissione Parlamentare sul femminicidio il caso di Lucia, la donna ridotta quasi in fin di vita dal marito al quale, in primo grado a Torino, sono stati inflitti 18 mesi senza detenzione in carcere. Condannato per lesioni e non per maltrattamenti, è stato ritenuto dalla Corte più attendibile della vittima. Così, in sostanza, dice la motivazione. Come se i ruoli si siano ribaltati. Un’argomentazione che ricorda i primi processi degli anni Settanta dove la donna violentata sembrava la colpevole e l’aguzzino la vittima della sua seduzione o della sua imprudenza o della sua provocazione. Il refrain è sempre “se l’è cercata, se l’è voluta”.

In quest’ultima amara vicenda le motivazioni del pronunciamento sembrano proprio confermare questa logica distorta, decisamente misogina e discriminatoria. Ci si chiede che fine ha fatto il Codice Rosso, entrato in vigore nel 2019, che non soltanto stabilisce procedure più veloci, nuovi strumenti a tutela della persona offesa, ma riarticola, per esempio, il reato specifico di sfregio al viso che è reato contro la vita e l’incolumità della persona. Evidentemente le 21 placche di titanio per ricostruire chirurgicamente il viso di Lucia che non tornerà mai più come prima, il nervo ottico che resterà lesionato, ma soprattutto gli anni di violenza subita, non sono stati ritenuti sufficienti a motivare una maggiore severità nel giudizio penale.

Colpire il volto ha un significato reale e simbolico non indifferente. Il nostro volto è parte integrante della nostra identità. Recargli danno è come voler cancellare i connotati di quella persona. Pensiamo alle donne bersagliate con l’acido, come fu Lucia Annibaldi. Poco importa, come nella nuova, ennesima, tragedia familiare, che l’abilità chirurgica sia oggi in grado di porre, almeno parzialmente rimedio al danno. Non può la bravura dei medici andare a vantaggio di chi ha commesso la violenza. L’aggressione c’è stata, è stata brutale, poteva avere conseguenze più gravi.

A tutte queste considerazioni, si aggiunge quella relativa alla credibilità: perché credere a lui e non a lei. E nonostante i figli si siano costituiti parte civile a fianco della madre e abbiano promosso una campagna contro la violenza di genere. Da questo già possiamo dedurre quanto quella madre sia credibile. I figli devono aver visto, giorno dopo giorno, anno dopo anno, il deteriorarsi dei rapporti tra i genitori, le aggressioni alla mamma. Anche i figli non sono stati ritenuti testimoni attendibili? Andando oltre all’amarezza provocata da questa sentenza, è bene domandarsi perché la nostra società giustifica troppo facilmente la  violenza.  Vi trova sempre qualche motivazione, un modo per concederle le attenuanti generiche.

La nostra cultura trova difficile dire no alla violenza. No, basta. Non si alzano le mani, non si picchia, non si insulta, non si violentano le donne, anche se passeggiano in un parco a mezzanotte in minigonna, non si disprezza il tuo simile perché la violenza psicologica ferisce e uccide come un’arma. Il decalogo potrebbe continuare. C’è un limite invalicabile regola aurea delle buone relazioni umane: il rispetto. Certo questo significa educare a gestire la rabbia, la delusione, in generale le avversità della vita. È vero quello che scrivono i giudici nella motivazione che questo marito violento era amareggiato per la fine del matrimonio, forse anche affranto, disperato, ma ciò non può e non deve essere una giustificazione per atti di vendetta, di rancore, di ritorsione.

La vita non sempre procede secondo i nostri desideri, i nostri progetti. Spesso prende altre strade, ci pone di fronte realtà che non avevamo previsto. Insegnare, fin dall’infanzia, dall’adolescenza a non cercare il capro espiatorio quando le cose ci vanno male, a non addossare le colpe a qualcuno evitando così di esaminare i nostri torti. Insegnare che non c’è nulla di irrimediabile e che la nostra personale volontà deve fare i conti con le volontà di altri che a volte non combaciano con la nostra. Che facciamo, la guerra? Sì, gli umani scatenano le guerre. Dialogare è troppo faticoso, ma educare a gestire i conflitti senza violenza è la grande sfida dell’umanità per non autodistruggersi.

 

 

 

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