C'è chi dice "ni" e "non ci crede" all'Europa e pensa a Washington
- Giancarlo Rapetti
- 16 apr
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di Giancarlo Rapetti

Siamo alla vigilia del viaggio a Washington della presidente del consiglio Giorgia Meloni che andrà a verificare di persona che cosa ha in testa il presidente americano Donald Trump che all’entrata in carica dava l'impressione, tra le altre conseguenze, che potesse chiarire in modo incontrovertibile le posizioni politiche dei vari partiti e dei vari paesi di fronte ai nuovi scenari.
Le premesse c’erano, e ci sono tutte. Il ciclone Trump si è abbattuto sull’Ucraina, abbandonata al suo destino e minacciata di una spartizione in stile patto Molotov-Ribbentrop. La difesa dell’Europa, affidata dal 1945 e formalmente dal 1949 agli Stati Uniti, leader e forza armata preminente della NATO, non è più tra le priorità della nuova amministrazione americana. Le minacce sul Canada e la Groenlandia da parte di Trump dimostrano che per il tycoon amici e alleati non sono più tali. Come se tutto ciò non bastasse, le manovre sui dazi hanno sconvolto e sconvolgeranno l’economia e la finanza mondiale. In genere, di fronte ad una situazione critica e ad un attacco importante, le entità forti si compattano, quelle deboli si frantumano.
L’Europa sembra aver trovato la forza per compattarsi, senza esagerare s’intende e senza troppa fretta, come d’uso tra il Mare del Nord e il Mediterraneo. Comunque Francia e Regno Unito hanno promosso la coalition of the willing a sostegno dell’Ucraina, il Cancelliere tedesco in pectore Friedrich Merz rilascia dichiarazioni europeiste senza riserve. Per inciso, la coalizione dei volenterosi ha un punto debole, ne fa parte la Turchia. Nella storia della politica estera inglese, non è la prima volta che il Regno Unito gioca la carta turca contro la Russia. Ma oggi la Turchia, guidata da un dittatore (copyright Draghi), è impegnata a ricostituire l’Impero Ottomano, ha già messo le mani sulla Libia, la Siria e il Kurdistan iracheno. Insomma se già non è un problema per l’Europa, lo sarò presto.
Ritornando al discorso principale, l’Unione Europea ha emesso il libro bianco sulla difesa e propone di mobilitare fino a 800 miliardi di euro per sostenere il progetto di riarmo dell’Europa e di difesa comune. Non sono numeri grandi come sembra. I soldi veri sono 150 miliardi di debito comune (Next Generation EU era di 750 miliardi). Gli altri 650 miliardi sono l’importo massimo complessivo della deroga al patto di stabilità per gli Stati che possano e vogliano assumere debito nazionale per l’obiettivo comune. Più importanti gli obiettivi immediati (in attesa dei passi avanti dell’Unione politica che non saranno né facili né veloci come le circostanze richiederebbero): la standardizzazione dei sistemi d’arma e dei protocolli operativi; l’integrazione delle forze operative e l’individuazione delle regole di comando unificato; il rilancio della produzione industriale in Europa di materiale per il riarmo.
Neanche la tempesta perfetta scatenata da oltre Atlantico, però, ha smantellato l’italica ambiguità. E' vero che il MoVimento Cinque Stelle e la Lega sono dichiaratamente contrari all’Europa e all’Ucraina. Anche se solo i Cinque 5 Stelle sono coerenti sino in fondo, dimostrando di essere, detto asetticamente e rispettosamente, il peggio del peggio. Infatti votano contro l’Europa e l’Ucraina, in coerenza con la propria propaganda. La Lega, invece, vota contro Europa ed Ucraina a Bruxelles e Strasburgo, ma in Italia subisce i diktat della Presidente del Consiglio e, quando si vota, si adegua. Corroborando, sempre parlando con altrettanto rispetto, il detto popolare “can che abbaia non morde”. Per inciso, questa coincidenza di posizioni, almeno dichiarate, dimostra che il Governo gialloverde (noto anche come Conte 1) non era un caso, ma la convergenza naturale di due forze populiste, unite dalla comune avversione per i valori dell’Occidente: la cultura, il lavoro, il rigore etico e finanziario, la coesione sociale, il rispetto delle istituzioni.
L’Alleanza Verdi Sinistra (AVS), si è prontamente allineata ai 5 Stelle. Sul fronte opposto, è chiara la posizione di Azione, appena uscita dal Congresso che ha ridefinito la posizione centrista. Sostiene l’Ucraina, sostiene il progetto europeo, sostiene il piano di riarmo proposto dalla Commissione europea, primo passo per la costruzione della deterrenza capace di assicurarci altri decenni di pace. Considera i dazi un serio problema, capace di innescare una gande crisi economica, finanziaria e sociale, contro la quale bisogna attrezzarsi in modo adeguato e tempestivo. Tuttavia le forze citate, quelle di cui le posizioni possono definirsi chiare, comunque le si valuti nel merito, rappresentano, insieme, una minoranza nel Parlamento e, stando ai sondaggi, anche nel Paese. Per i partiti più importanti, chi ci capisce è bravo.
Non si riesce nemmeno a capire se la confusione evidente delle loro posizioni è reale o il frutto di un disegno pigliatutto. Atteniamoci ai fatti apparenti. Il Partito Democratico ha tenuto sulla questione del riarmo europeo tre posizioni diverse, anche di più se si considera che in sede di votazioni il gruppo parlamentare europeo non è mai stato univoco. E’ un gioco delle parti, per non scontentare nessuno? Oppure denuncia una reale frattura profonda che nel tempo non potrà non avere conseguenze? Sentendo le dichiarazioni, sembra più accreditata l’ipotesi, emergente anche da altri aspetti, che il giovane gruppo occupy PD che ha scalato il partito non si riconosce nei valori fondativi del partito stesso, ma, avendone assunto il controllo con insospettabile sicurezza ed efficacia, marci in “direzione ostinata e contraria” a quei valori.
Gli “altri”, “quelli di prima”, sono così tramortiti che non riescono ad andare oltre effimeri dissensi. D’altra parte, i numeri stanno, per ora, dalla parte di Elly Schlein: con la sua segreteria le percentuali sono salite, gli elettori in valore assoluto sono stabili. Non è poco, e conta meno l’interpretazione di questi numeri: in cambio del recupero di una parte degli elettori Cinque Stelle, il PD ha assunto come propria l’intera agenda del MoVimento e gli cederà la leadership della coalizione, se mai ci sarà. Oggettivamente, un bilancio fallimentare, ma sorretto da un ragionamento semplice: meglio rientrare nella stanza dei bottoni, anche in posizione subalterna, piuttosto che stare fuori. Non è detto che funzioni; e se non funzionasse, sarebbe un doppio fallimento. Nella storia, vendere l’anima al diavolo ha sempre avuto forti controindicazioni. O, banalmente, non so quanti elettori siano d’accordo con Maria Elena Boschi quando dice “meglio il Conte ter che Meloni”.
Nel campo governativo, la situazione è ancora più complessa. Della Lega abbiamo detto. Forza Italia si dichiara pro Ucraina e pro Europa: “se il governo non fosse europeista, noi non ne faremmo parte”; una affermazione forte da parte di un sempre diplomatico Antonio Tajani. Giorgia Meloni si mantiene in equilibrio precario: si dichiara favorevole all’Europa, ma per il dialogo con Trump; sostiene l’Ucraina, ma vede positivamente il processo negoziale avviato da Trump (il cui effetto finora è l’aumentata pressione militare russa); fa votare alla sua maggioranza in Parlamento una mozione sulla politica estera che funziona unitariamente solo perché priva di ogni contenuto reale; apprezza von der Leyen, ha un continuo rapporto con lei, ma le ha votato contro e continua a votarle contro ad ogni occasione propizia.
Un punto alto dell’ambiguità del Governo è rappresentato dalla questione della forza di interposizione o di garanzia, una volta raggiunta la tregua in Ucraina. Il primo a lanciare l’idea è stato proprio Tajani, e Meloni l’ha fatta sua e rilanciata: la missione ONU, l’unico ambito in cui l’Italia manderà, o manderebbe, soldati. Tralasciamo l’aspetto che l’ONU è una organizzazione screditata, che non ha impedito per esempio il massacro di Srebrenica e nella quale le democrazie sono in minoranza precostituita. Nella specifica situazione, si dà il caso che Russia e Sati Uniti siano entrambi membri permanenti con diritto di veto del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Quindi l’ipotetica missione ONU non si fa, o si fa alle condizioni dettate da ognuno dei due soggetti interessati alla spartizione dell’Ucraina.
La Russia garante della pace nel paese invaso sarebbe la facezia del secolo, se non fosse, per il Governo italiano, un astuto diversivo per guadagnare tempo, nascondere le proprie contraddizioni interne e vedere come andrà a finire. Ma esistono davvero queste contraddizioni interne? O meglio: sono tali, queste contraddizioni, da minare la solidità del Governo? A giudizio di molti commentatori, sì: una componente antieuropea (la Lega), una europeista, perfino centrista in quanto aderente al Partito Popolare europeo (Forza Italia), una intermedia, che vuole essere amica contemporaneamente dell’Europa e degli attuali Stati Uniti (Fratelli d’Italia) e questo per il dovere insito nel ruolo di chi ha la responsabilità di dirigere una nazione (per usare un termine caro alla Presidente del Consiglio).
Considerato che viaggiamo nel campo delle ipotesi, si può azzardare un’altra interpretazione: Giorgia Meloni sta, con accorta regia, giocando con un attacco a tre punte. Lei stessa è il regista offensivo, quello che va anche in goal (come insegna la ricca storia dei numeri dieci del calcio), e alla sua destra attacca con Garrincha-Salvini e alla sua sinistra con il compassato ed elegante Tajani, per il quale mi astengo da paragoni calcistici, in questo caso con i grandi numeri undici. Con questo, non si intende dire che è tutto pianificato a tavolino, ma che le differenze, anche abissali, tra le varie componenti della sua maggioranza, anziché indebolirla, le fanno gioco, consentendole di coprire una gamma di posizioni più ampia e in sostanza uno schieramento più vasto, del quale comunque ha il pieno controllo.
Depone a favore di questa interpretazione la insospettata evidente straordinaria capacità politica di Giorgia Meloni, che si è rivelata un talento naturale della comunicazione, espertissima della politique politicienne (Pietro Nenni l’avrebbe ammirata), che ha ben chiari i propri obiettivi. Molti, anche dall’opposizione, e tra le figure insospettabili, subiscono il suo fascino. Come spiegare altrimenti l’esortazione rivolta da Mario Monti alla Presidente del Consiglio in procinto di andare a Washington: ”spieghi al Presidente Trump che se l’Italia dovesse scegliere tra gli USA e l’Europa sceglierebbe l’Europa”. Esclusa l’ipotesi di un raffinato sarcasmo espresso con l’eleganza che sempre contraddistingue il Professore, Senatore a vita, resta una fiduciosa apertura di credito europeista. Piuttosto azzardata, considerate le esternazioni di Giorgia Meloni.
Valga per tutte la perentoria affermazione sul Manifesto di Ventotene: non un’espressione forte sfuggita in un accalorato comizio, non la risposta d’istinto ad una domanda scomoda di un giornalista, ma un attacco a freddo inserito in un meditato discorso in sede istituzionale. Nel citato Manifesto ci sono venti pagine di considerazioni e affermazioni, alcune datate e superate dalla storia, ma c’è una intuizione forte, che ha reso il documento famoso: un’Europa federale, per superare i nazionalismi che per due secoli hanno infestato il continente generando tragedie tra le più grandi nella storia dell’umanità. Meloni ha voluto fosse chiaro che lei l’Europa federale non la vuole. E crediamole, suvvia, “per il suo onore, e abbiamo tanta fiducia nel suo onore da poterle credere”, come avrebbe detto il Bruto di Shakespeare.
L’attacco al Manifesto ha suscitato reazioni diverse. Il PD si è scandalizzato, seguito da AVS, che in questo caso non è andata a rimorchio di Conte. Azione ha osservato che si trattava di un diversivo e che occorre affrontare i problemi di oggi e non le disquisizioni su parole di oltre ottanta anni fa; considerazione che rischia di peccare per eccesso di razionalità: il sì o il no all’Europa federale è proprio il nodo politico forse più importante di oggi. Come rischia di essere eccessivamente razionale l’atteggiamento di Azione nei confronti del Governo. In linea di principio confrontarsi con il governo in carica sul merito dei temi, approvare laicamente i provvedimenti ritenuti positivi e contrastare quelli giudicati negativi, è una linea matura e ineccepibile. Ma per il confronto, come per la pace, bisogna essere in due. Non sembra che il governo Meloni sia interessato. Vive già proiettato nella forma del premierato, sintetizzato così: ogni tot anni il popolo sceglie il governo, che attua il programma, e per tot anni non c’è più niente da discutere.
Nella pratica, Palazzo Chigi non sembra molto propenso a governare, diciamo che governa il meno possibile, affidando la difesa delle retrovie al ministro Giorgetti. La maggior parte delle energie sono spese per evitare di cambiare l’inquilino del palazzo, attraverso la propaganda (efficacissima), l’occupazione dei posti chiave nel deep state, e le “riforme”. A proposito delle quali, ricordo una frase di Carlo Calenda di cinque anni fa: ”smettiamo di parlare di riforme e occupiamoci di gestire e far funzionare le cose che ci sono”.
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