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Attenzione al "Greenwashing", non sempre basta la parola...

L'eco sistema digitale è diventato un giudice severo


di Noemi Siviero ed Emanuele Davide Ruffino

 

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Il “fattore green” sta diventando uno dei principali fattori delle scelte di consumo, in particolare tra segmenti di pubblico sensibili ai temi ambientali e sociali. Essere sostenibili, o almeno dare l'impressione di esserlo, è diventato un requisito strategico per aziende di ogni settore. Ma questa spinta presenta un rovescio della medaglia: la tentazione, sempre più diffusa, di utilizzare immagini “green” come leva puramente comunicativa.


L'analisi del premio Nobel Akerlof

Il rischio è trasformare la sostenibilità in una narrativa di facciata, svuotata di contenuti concreti, con un disallineamento tra comunicazione e comportamento. Diventa quindi fondamentale chiarire che cosa significa “essere green” e come si distingue una strategia autentica da una mossa di marketing (anche la Consob sta predisponendo un progetto basato sull’intelligenza artificiale per monitorare il fenomeno).

La nostra realtà è densa di mistificazioni e la pubblicità o la promozione che si nasconde dietro dichiarazioni altisonanti e packaging verde, ne è forse l’esempio più pervasivo. Di qui il greenwashing, perché “essere green” può garantire reputazione, clienti e margini di guadagno, anche se si corre il rischio che l'operazione si traduca più sul piano dell'immagine che reale impegno sociale. George Arthur Akerlof premio Nobel 2001 nel suo “The market for lemon” definiva la mancanza di trasparenza e di informazioni affidabili come un fenomeno di selezione avversa: gli acquirenti, non potendo distinguere tra prodotti di buona qualità e scadenti (“lemons”), tendono a falsificare il valore del prezzo, con il rischio di “inquinare” il mercato in quanto le aziende che non hanno un reale impegno ambientale o sociale si mescolano con quelle veramente sostenibili, inducendo il cosiddetto “effetto lemon” (sono tutti bidonisti).

Il termine greenwashing nasce nel 1986, coniato da Jay Westerveld dopo aver letto un cartello in una stanza d’hotel alle isole Fiji. “Per salvare l’ambiente, ti invitiamo a riutilizzare gli asciugamani”. Peccato che, fuori dalla stanza, l’hotel stesse ampliando la struttura a discapito della barriera corallina! Da qui nacque la critica al greenwashing: un linguaggio ecologico usato come vetrina, più utile a tutelare l’immagine dell’azienda che l’ambiente stesso.

Oggi il concetto ha assunto una forma ancora più pervasiva trasmettendo messaggi ambigui e simboli evocativi ma credibili, mimetizzandoli nel flusso informativo in forme sempre più sottili e difficili da riconoscere.

 

Sospesi nell'ambiguità di essere o apparire

La cronaca ha rilevato diversi casi di greenwashing, tra i tanti si ricorda la Anheuser-Busch InBev, colosso della birra, che prometteva eco lattine, packaging green e fantomatiche riduzione delle emissioni o il caso di British Petroleum, che è passata dallo slogan “Beyond Petroleum”, al disastro ambientale del Golfo del Messico nel 2010.

È più semplice e meno costoso apparire sostenibili che esserlo davvero. Ed è proprio questa apparente efficacia a renderla così pervasiva. La sostenibilità, anche quando è solo evocata, può attrarre nel breve periodo nuovi clienti, migliorare la reputazione e posizionare l’impresa in una nicchia di mercato ad alto valore. È proprio questa ambiguità iniziale tra successo e inganno a renderla così diffusa e pericolosa.

Non sempre è facile smascherare il greenwashing, ma alcuni segnali ricorrenti aiutano a identificarlo. La letteratura ha individuato “sette peccati capitali, ossia strategie comuni con cui si costruiscono facciate come l’assenza di prove: (affermazioni senza dati o risultati tangibili), l’approssimazione che si manifesta nell’uso di parole come “naturale” o “ecologico” lasciate volutamente vaghe), l’irrilevanza nell’enfatizzare aspetti insignificanti (come vantarsi per caratteristiche di legge), l’attribuzione indebita (attribuirsi meriti altrui, ad es. di un fornitore), affermazioni non pertinenti (che collegano messaggi ambientali a prodotti scadenti), proposte falsamente accattivanti (ponendo l’enfasi su un singolo vantaggio) ed infine, il più grave, la menzogna deliberata, ovvero la costruzione di un’identità green priva di fondamento.

Delmas e Burbano (2011, University of California) evidenziano tre livelli di cause che spingono le imprese verso questa scorciatoia: fattori esterni come la pressione dei consumatori e l’incertezza normativa; i fattori organizzativi, legati a incentivi distorti e alla cultura interna; infine, i fattori individuali, come il desiderio di ottenere risultati immediati o la tendenza a sopravvalutare il proprio impatto positivo. Tuttavia, il contesto sta cambiando. Il consumatore di oggi è più consapevole e informato. E quando percepisce incoerenze, tende a ritirare la propria fiducia in forme irreversibili. L’etica, quando viene tradita, non lascia indifferenti: diventa un elemento discriminante nelle scelte di consumo.


Come si smaschera l'incoerenza

Per capire quanto un  approccio corretto sia riconosciuto e valorizzato dai consumatori, è stata condotta una ricerca su un campione di circa mille persone sul marchio “Patagonia”, un brand che ha fatto della sostenibilità non solo un messaggio e che è stata premiata dal pubblico sia sul piano economico che emotivo. I risultati sono significativi: all’aumentare del riconoscimento dell’impegno ambientale, cresce in modo sistematico la fedeltà, il coinvolgimento e la propensione all’acquisto. Questo dato è stato confermato da una serie di analisi incrociate, che hanno evidenziato come, quando l’impegno ambientale è percepito come autentico, il consumatore tende a sentirsi parte di una visione condivisa e sviluppa una maggiore propensione a sostenere l’azienda anche sul piano commerciale.

Un risultato non scontato, in un mercato dove fiducia e reputazione si costruiscono con lentezza, ma possono incrinarsi in un istante. E questo, forse, è il dato più rilevante: la sostenibilità funziona davvero solo quando è riconosciuta come tale. La sostenibilità, dunque, nel caso di Patagonia, si traduce in una vera e propria leva strategica: non un semplice valore aggiunto, ma un elemento distintivo che, nel tempo, diventa vantaggio competitivo. Il punto centrale, dunque, non è se il greenwashing funzioni subito, ma quanto possa mantenere il proprio effetto nel tempo.

In un contesto in cui parole come “sostenibilità”, “responsabilità” e “impatto” popolano ogni comunicato aziendale, la differenza non sta più in ciò che si dice, ma in ciò che si fa. Il consumatore maturo non si accontenta più delle apparenze: è critico, consapevole, e sempre più invogliato a smascherare l’incoerenza (che gli dà pure notorietà) trasformando il greenwashing da scorciatoia comunicativa in una fragilità strategica.

L’evoluzione digitale ha accentuato questo fenomeno: le piattaforme social, grazie alla loro immediatezza e diffusione, espongono al pubblico casi di greenwashing in tempo reale, aumentando il rischio reputazionale per i brand. Un esempio emblematico è quello di H&M, uno dei maggiori marchi fast fashion, che è stato più volte criticato per campagne di marketing “sostenibili”, ma percepite come poco trasparenti o incoerenti rispetto alle realtà. Altro esempio è rappresentato dalla campagna "Conscious Collection" che ha suscitato dubbi e accuse di greenwashing da parte di attivisti e consumatori, che hanno evidenziato come la produzione di massa e il rapido turnover degli articoli contrastino con i principi di sostenibilità dichiarati. Questo caso mostra come, in un futuro sempre più trasparente e connesso, la sostenibilità smetterà di essere un semplice valore aggiunto per diventare la vera condizione per restare rilevanti e conquistare la fiducia dei consumatori. Nell’ecosistema digitale, dove ogni azione può essere verificata in tempo reale, saranno i comportamenti, più che le parole, a costruire (o distruggere) la reputazione di un brand.

 

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