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10 febbraio, uniti nella memoria dell'esodo istriano

di Nino Boeti*


Il passo istituzionale passa dalla data: 10 febbraio, Giornata del Ricordo, momento di riflessione collettiva che il Parlamento Italiano ha istituito nel 2004 con la legge 92. Lo scopo è quello di tenere viva la memoria su una delle tragedie più devastanti del nostro Paese: l’uccisione di migliaia di persone, ottomila (secondo le stime più attendibili degli storici), e l’esodo di oltre 300 mila donne, uomini e bambini dalle loro terre d’origine, l'esodo delle popolazioni giuliano dalmata. Quelle del “confine orientale”, come vengono ricordate.

Dicevo donne, uomini e bambini, in una parola famiglie costrette a lasciare la loro terra, quella terra che Biagio Marin, poeta di Grado, descrive con grande forza: “Dio ci ha posti qui, su questa terra giuliana, dove etnie diverse confluiscono e spesso si urtano. Qui si impara a conoscere gli altri, e talvolta si impara a stimarli per le loro virtù per le quali sono migliori di noi. Non c’è popolo in Europa che sia pieno di così intime contraddizioni come da noi”.


Le testimonianze sulle atrocità

Il Piemonte fu la seconda regione d’Italia per numero di arrivi, dopo il Veneto e il Friuli Venezia Giulia. Alla data del 31 dicembre 1946 risultano in città, a Torino, 343 cittadini provenienti dai territori della Venezia Giulia e dalla Dalmazia. Diventarono poco più di 8 mila dieci anni più tardi. “Torino fu la prima città dell’esilio, mi apparve fredda, vuota, con quelle strade interminabili, diritte, e le case tutte uguali. La gente passava sempre frettolosa e i loro volti non potevano sapere nulla di quello che avevo lasciato”. Così, in un articolo pubblicato nel 1981 sul “Piccolo” di Trieste, Guido Miglia, direttore del quotidiano, “L’arena di Pola”, ripercorreva i suoi primi giorni vissuti a Torino.

Gianni Oliva, nel suo libro “Foibe”, ricorda le parole di un’anziana donna: “Quando ero adolescente, vedevo dalle finestre il Mare Adriatico che si infrangeva a Rovigno, in Istria. Poi sono finita a Tortona, in via Alessandria 62. Diceva così: in via Alessandria 62, per non nominare il centro profughi che corrispondeva a quel numero civico”. “Invecchiammo di cento anni e fu in una sola ora”, sono le parole di Anna Achmatova.

Non fu un arrivo semplice quello dei profughi, le strutture che li avrebbero accolti erano soprattutto edifici in disuso, come caserme, fabbricati militari, scuole, conventi, ospedali, stabilimenti industriali abbandonati, ex campi di concentramento e di prigionia. Fu il caso della Risiera di San Sabba a Trieste e di Fossoli in Emilia. In totale furono 109 le strutture ubicate su tutto il territorio nazionale all’interno delle quali la permanenza si prolungò per molti anni al punto che nel 1963 si contavano ancora all’interno di queste strutture provvisorie ben 8493 profughi. Senso di ingiustizia, espulsione dalla propria terra saranno le emozioni ricorrenti nel cuore dei profughi, accompagnati da una struggente nostalgia per la terra d’origine.


Il senso dell'abbandono

Il ricordo del mondo antico, dei borghi istriani, delle cittadine costiere, il fascino di Fiume, Pola, Zara e quello traumatico di mesi e anni passati nei centri di raccolta profughi che si intrecciano con quello dell’angoscia e della decisione di andare via… Andare via, sapendo di non poter più tornare. Ma con l’orgoglio di aver dimostrato con l’atto di rinuncia alla terra natale un doloroso patriottismo. Lasciare la propria patria naturale per scegliere quella ideale: l’Istria per l’Italia. E tutto ciò per conservare un’identità italiana, antica e recente, veramente sentita come valore assoluto. Irrinunciabile.

E davanti a tale sacrificio gli esuli si ergono come i soli testimoni incontestabili della loro Storia. Il Prefetto di Pola, Mario Micali, scrisse: “Si provava una strana impressione in quei tempi, non si assisteva che a un continuo passaggio di casse di ogni genere e di imballi. Non si sentiva che un batter di chiodi.” Casse ed imballi che occupavano ogni spazio della Motonave Toscana che aveva una capacità di 2 mila posti ridotti successivamente a 1500 per sicurezza e che svolgerà la sua attività dal 3 febbraio 1947 al 20 marzo dello stesso anno. Fu un’Italia distrutta dalla Guerra quella che accolse i profughi. Un comportamento intriso di pregiudizi e dinamiche esclusive, tendenti ad identificare i nuovi arrivati come fascisti in fuga, ma anche come depositari di valori morali estranei alla comunità che li accoglie. Ed infine come scomodi e pericolosi concorrenti ai pochi posti di lavoro offerti dall’Italia prostrata dall’immediato dopoguerra.


Le criminali responsabilità del fascismo

Ci furono in realtà anche casi di solidarietà, come i tre milioni di lire messi a disposizione dalla Sisal o il milione donato dalla Banca popolare di Novara. Fu una tragedia negata dal nostro Paese per molto tempo quella delle foibe e dell’esodo dei profughi. Aldous Leonard Huxley scrisse che i fatti non cessano di esistere solo perché vengono ignorati. E sono incontestabili. E’ incontestabile il fatto che la follia della guerra, voluta dal fascismo, fu l’antefatto di questa tragedia.

Il fascismo aveva italianizzato un territorio in cui vivevano anche 300 mila sloveni e croati. Ne aveva abolito le scuole e le istituzioni. Ne aveva italianizzato i nomi. Nella Risiera di San Sabba, a Trieste, entrarono in azione i forni crematori e 3 mila persone diventarono fumo. Tra le vittime molti sloveni e croati. Venivano gasati dentro i camion nei quali al chiuso venivano iniettati i gas di scarico. Ancora prima, il 13 luglio 1920, fu distrutto l’Hotel Balkan, sede culturale ed economica degli sloveni a Trieste. “Le grandi fiamme del Balkan purificano finalmente Trieste, purificano l’animo di tutti noi”, commentò il fascista Rino Alessi, futuro direttore del “Piccolo” di Trieste, e dopo le leggi razziali (anche queste appartengono al fascismo) proprietario dello stesso giornale.

Ancora. Un Regio Decreto del 1925 proibisce che nei ritrovi o nelle strade si parli o si canti in slavo. Nel giugno del 1927, le 400 organizzazioni culturali slovene e croate vengono soppresse. Nelle scuole furono rimossi gli insegnanti non italiani, triste preludio di quello che succederà con le leggi razziali agli insegnanti ebrei espulsi dalle scuole italiane. I sacerdoti sloveni e croati subiscono aggressioni fisiche e devastazioni di canoniche e nel 1939 vengono alienate tutte le proprietà slovene e croate e nel 1941 l’invasione della Jugoslavia.


La violenza dell'esercito titino

La seconda cosa che è incontestabile fu la violenza, efferata e crudele, esercitata tra il settembre e l’ottobre del ‘43 e il maggio/giugno del ‘45 dai comunisti di Tito sulla popolazione italiana e qualche volta anche su sloveni e croati. I primi ad essere colpiti sono squadristi e gerarchi locali, poi i rappresentanti dello stato italiano, funzionari, carabinieri, guardie campestri, insegnanti, medici condotti, ostetriche… Nessun italiano poté essere al sicuro dalla follia assassina delle truppe slave.

Fra i tanti innocenti uccisi la figura diventata simbolo di quella tragedia di Norma Cossetto, insignita nel 2005 dall'allora presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, della medaglia d'oro al valore civile. La sua unica colpa fu quella di essere figlia di un segretario del fascio. Violentata per giorni, fu oggetto di sevizie crudeli. La uccisero facendola precipitare nella foiba nei pressi di Villa Surani, profonda 135 metri.

Analoga sorte toccò alle tre sorelle Radecca: Albina di 21 anni e in attesa di un bambino, Caterina di 19 anni e Fosca appena diciassettenne, violentate e uccise facendole precipitare nella foiba di Terli assieme ad altri 20 sventurati. Lo stupro sulle donne ha sempre rappresentato uno dei fenomeni più violenti nelle guerre di ogni tempo. In quella parte di paese si fuse con la lucidità di un progetto politico che aveva l’obiettivo di eliminare tutto ciò che era italiano.

Gettare un uomo o una donna in una foiba significava considerarlo alla stregua di un rifiuto… Gettarlo là dove, da sempre, la gente istriana getta ciò che non serve più, come un vecchio mobile rotto. La vittima sprofondata nella foiba viene annullata non solo nella sua esistenza fisica ma anche nel nome, nella memoria….. Uccidere chi è considerato un nemico non basta, occorre anche annullarne ogni traccia, come se non fosse mai esistito. Nel 45 la guerra, ancora, dentro la pace.


Il silenzio sulla tragedia

C’è una terza cosa, l’ultima, che è incontestabile ed è il silenzio tenuto dal nostro Paese su quella tragedia. Nell’intervento che nel 1961, per le celebrazioni del Centenario dell’Unità d’Italia, tenne Giovanni Gronchi, all'epoca presidente della Repubblica, non si fece alcun riferimento al fascismo, né alla Resistenza, né all’esodo. La Jugoslavia aveva rotto con Stalin ed era un partner anche economico del nostro Paese.

Il Partito comunista italiano, con segretario generale Palmiro Togliatti, un partito con il 23 per cento dei consensi alle elezioni politiche del 1958, non aveva interesse a tornare su una questione scomoda che evidenziava le sue irrisolte contraddizioni, tra la nuova collocazione come partito nazionale, la vocazione internazionalista e i rapporti con l'Urss e il Pcus, e il legame con il partito comunista iugoslavo. A nessuno interessava né i 300 mila profughi, né le persone gettate nelle foibe.

La giornata del Ricordo ha segnato una cesura rispetto a tutto questo. E perché la conoscenza del passato si trasformi in coscienza del presente è necessario che quanto è successo sia liberato da ogni appartenenza politica, per non offendere ancora i profughi, le loro famiglie, le vittime delle foibe. Claudio Magris, nel suo libro, Infinito viaggiare del 2005 ha scritto: “Alle genti di una riva, quelli della riva opposta sembrano spesso barbare, pericolose e piene di pregiudizi nei confronti di chi vive sull’altra sponda. Ma se ci si mette a girare su e giù per un ponte, mescolandosi alle persone che vi transitano, e andando da una riva all’altra fino a non sapere più bene da quale parte e in quale paese si sia, si ritrova la benevolenza per se stessi e i piaceri del mondo. Dov’è la frontiera? Chiede Saramago sul confine tra Spagna e Portogallo ai pesci che nello stesso fiume nuotano a seconda che guizzino vicino a una sponda o l’altra. Ora nel Duero ora nel Douro”.


* Presidente Anpi Provinciale Torino

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