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Marco Travaglini

Una storia d'altri tempi: l'ingegno di Antonio Chiribiri

di Marco Travaglini


Una lunga prova d’ingegno e di coraggio, accompagnata da una visionaria capacità di guardare al futuro. Così potrebbe definirsi la storia della Chiribiri. Fondata nel quartiere operaio di Borgo San Paolo a Torino alla fine del settembre 1911 dall’ingegnoso veneziano Antonio Chiribiri insieme al pilota collaudatore Maurizio Ramassotto e all'ingegnere Gaudenzio Verga, la Fabbrica Torinese Velivoli Chiribiri & C., si cimentò inizialmente nella produzione di pezzi di ricambio per l'industria aeronautica. Un esordio fortunato che consentì all’impresa di raggiungere in breve tempo una notevole espansione grazie all'affidabilità e alle prestazioni dei propulsori prodotti su licenza della società francese Gnome et Rhône che, negli anni della Grande Guerra, le valsero importanti commesse militari per la manutenzione dei motori aeronautici.

Negli anni che precedettero l’attentato di Sarajevo, la Chiribiri si era segnalata per la sua notevole intraprendenza, ideando e costruendo un prototipo d'aereo monoplano. Un fatto di assoluto rilievo dato che si trattava del primo aeroplano interamente costruito in Italia e per di più da una sola azienda. Fu lo stesso Antonio Chiribiri, nonostante non avesse mai pilotato un aereo, a voler collaudare il monoplano che sfortunatamente si schiantò al suolo poco dopo il decollo. Testardo e per nulla incline alla resa il temerario inventore veneziano rimase incolume e, qualche mese più tardi, decise di realizzare un aereo a decollo verticale che, doppiando l’insuccesso, subì la medesima sorte dell’altro prototipo. Di fronte all’amara realtà altri avrebbero gettato la spugna ma non Chiribiri che al tramonto della Belle Époque, tra il 1912 e il 1913, di monoplani ne costruì ben quindici per poi dedicarsi definitivamente alle autovetture.



Nel 1914, quando ormai i bagliori del conflitto erano alle porte, il conte Gustavo Brunetta d'Usseaux, desideroso di entrare nella nascente industria automobilistica, propose a Chiribiri una società per realizzare la Siva, un’automobile economica da produrre in cento esemplari, ribattezzandola con il nome della divinità maschile indiana. Non fu una scelta fortunata poiché, quando stavano per essere ultimati i lavori del prototipo Siva 8-10 HP, il conte torinese venne travolto dai debiti di gioco e si ritirò dall'impresa. Chiribiri strinse i denti e per non dissipare l'enorme lavoro svolto, decise di rilevare la società e proseguire da solo nello sviluppo dell'automobile, investendo nella nuova attività tutti i profitti ottenuti dalle commesse belliche.

Sulla base di quel prototipo ne fu approntato un secondo, il Tipo II, prodotto e venduto per tutta la durata del conflitto, in pochi esemplari continuamente evoluti. Servivano altre risorse che puntualmente vennero introitate con la vendita all'ingegnere Alfredo Gallanzi dei diritti per produrre su licenza quest’auto. Dall’accordo nacque la casa automobilistica milanese Ardita. Al Salone di Parigi del 1919, venne presentata la vetturetta 12 HP che riscosse un buon successo e rimase in produzione fino al 1922. Gli anni venti per Chiribiri rappresentarono il periodo della costruzione di vetture sportive e della partecipazione alle gare. 

Con la Roma 5000 e la Monza Tipo Spinto la casa automobilistica torinese conseguì importanti risultati, stabilendo vari record di velocità e strappando prestigiose vittorie in competizioni come la Cuneo-Colle della Maddalena, la Aosta-Gran San Bernardo, il Gran Premio Vetturette che si svolse al nuovo Autodromo di Monza e la Susa-Moncenisio del 1922, dove le quattro vetture schierate dalla Chiribiri conquistano le prime quattro posizioni, dominando la corsa. La squadra corse era piuttosto casalinga, essendo composta dal collaudatore Ramassotto e da Ada e Deo Chiribiri, figli del fondatore. Gelosa dei propri segreti tecnici, la Chiribiri era piuttosto restìa ad ingaggiare piloti estranei all'azienda, con la sola eccezione di un giovane pilota destinato a diventare il più grande di tutti i tempi, Tazio Nuvolari, il mitico “Nivola” che gareggiò per la casa torinese nelle stagioni 1923 e 1924.


Ci furono anche episodi entrati a buon diritto nella leggenda come la sofferta conquista del prestigioso record di velocità sul chilometro lanciato. La prova per battere il primato per la categoria fino a 1.500 cm³ venne fissata a Milano, sul lungo rettilineo in direzione di Monza, con lo scopo di dimostrare le prestazioni del nuovo modello d’auto. Era l'8 febbraio del 1923 e Deo Chiribiri, ottimo pilota, si presentò alla guida della Tipo Ada, così denominata per sfruttare la fama che la sorella si era conquistata sulla stampa sportiva. Le condizioni atmosferiche erano ottimali e la vettura in perfetto assetto, così da far sperare al giovane Chiribiri di ottenere, davanti ai cronometristi ufficiali, l’agognato record. Le cose andarono diversamente, smorzando gli entusiasmi: i cronometri misurarono velocità poco al di sotto i 150 km orari, di gran lunga inferiori alle aspettative. Così, dopo ripetuti tentativi, la prova si concluse con un insuccesso.

Antonio Chiribiri, piuttosto incredulo e alquanto scettico, rimase a lungo sul luogo della prova e, a notte inoltrata, decise di misurare il tratto cronometrato, scoprendo che i testimoni erano stati erroneamente posti ad una distanza di 1100 metri. Così, denunciato l’inghippo, richiamati i cronometristi, il giorno seguente il record venne omologato alla strabiliante velocità di 162,963 km orari. Per avere un riferimento, circa l'eccezionalità del risultato, occorre dire che negli stessi giorni anche l’Alfa Romeo e la Diatto, rispettivamente pilotate da Alberto Ascari e Alfieri Maserati, avevano tentato di battere il record sul chilometro lanciato, per la categoria fino a 3.000 cm³, ottenendo però velocità inferiori ai 157 km all’ora. Un risultato che ebbe un enorme eco sulla stampa, tanto che Antonio Chiribiri decise di mutare la denominazione del nuovo modello da Tipo Ada a Tipo Monza.

A metà degli anni venti, guadagnatosi il prestigio sul campo, l’azienda allargò la produzione a modelli non solo sportivi che potessero interessare una clientela più vasta e meno esigente.  Nacque il modello Milano e nel 1925 venne varata la Società Anonima Autocostruzioni Chiribiri. Innovazione, coraggio e grinta nelle corse davano prestigio ma questo non bastò a “tenere il mercato” dove le quote minime di produzione, determinanti per la sopravvivenza, erano decise dalla capacità di industrializzazione, dal prezzo e dall'adeguata promozione pubblicitaria del prodotto. Così, a poco a poco, le armi migliori della Chiribiri (le originali e costose innovazioni tecnologiche delle sue automobili) non furono più sufficienti per competere. La Milano non riscosse il successo sperato e i forti investimenti per ampliare gli opifici e assumere nuove maestranze gravarono pesantemente sul bilancio della piccola azienda. Nonostante ripetuti e generosi tentativi, la crisi industriale del 1927, che precedette di un biennio la grande depressione innescata dal giovedì nero di Wall Street, diedero il colpo di grazia alla Chiribiri.


L'azienda torinese che nell'anno precedente produceva a pieno ritmo, dando lavoro a più di duecento persone, si vide costretta a chiudere i battenti. Era il 3 settembre del 1928. Gli stabilimenti furono rilevati dalla Lancia e l'archivio tecnico della Chiribiri fu preso in custodia dall’ultimo socio, Gaudenzio Verga. L’indomito industriale non si arrende e torna alla meccanica fondando la Società Anonima Automobili Brevetti Chiribiri, puntando a specializzarsi in motori d’aviazione ma le cose non vanno per il verso giusto e il progetto di un aereo multimotore non decolla, costringendolo a ritirarsi. Un grande dolore arriverà con la morte del figlio Deo nel 1938: è il colpo di grazia e allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale si rifugia dalla figlia Ada nel Monferrato. Tre mesi dopo la morte di Antonio Chiribiri, avvenuta per malattia il 13 aprile 1943 all’ospedale di Alessandria, nella notte tra il 12 e il 13 luglio, Torino subì un terribile bombardamento.

La città venne colpita da una delle più violente incursioni aeree portate a segno dall’aviazione inglese. Sulla città caddero 763 tonnellate di bombe che provocarono la morte di quasi ottocento persone e ingenti danni a edifici, infrastrutture e stabilimenti industriali. Quel bombardamento rase al suolo anche la residenza di Verga, distruggendo completamente l'archivio aziendale della Chiribiri. La memoria di una delle più brillanti storie dell’industria piemontese finì distrutta e sepolta sotto quelle bombe.  

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