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Storia di Satnam Singh, una vita troncata dall'indifferenza per il valore della vita

di Emmanuela Banfo


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Satnam Singh, il lavoratore indiano abbandonato sanguinante lunedì scorso sul ciglio della strada a Latina, è morto nel pomeriggio di oggi, 19 giugno. L'avevano raccolto con braccio mozzato da un macchinario, mentre tagliava il fieno. Caricato su un pulmino, gettato sull'asfalto come una cosa, senza una parola, senza un gesto di soccorso. Una fotografia di lui mutilato inviata al sindacato ha fatto scattare l’allarme. L’episodio non ripropone soltanto il triste, e scandaloso, copione del bracciantato sfruttato, carne da macello il più delle volte immigrato, ma anche la desolante perdita di ogni, minimo, elementare, senso di compassione, di decenza, segno dell’involuzione di un’umanità che ha smarrito la percezione di sé, del suo essere umano. Oltre l’indignazione, oltre la condanna, occorre capire i meccanismi che muovono a tanta aberrazione. Non è l’unica e non è la prima volta nella storia, passata e presente.

Tuttavia non cessiamo di stupirci e ancora di più perché la nostra società, a parole accogliente e solidale, a norma di legge egualitaria e la cui cultura trasuda di un pensiero illuminista che pone al centro non già l’individualismo, ma l’individualità e, quindi, il rispetto della sua dignità, spesso, troppo spesso, non si vede. Non si vede nei gesti quotidiani, nell’esistenza di ogni giorno, nella vita associata che continua a mantenere forme di produzione alienanti e dove ancora è selettivo l’accesso ai diritti basilari, quali il lavoro, l’istruzione, la salute. E’ come se l’evoluzione fosse soltanto giuridica, concettuale e financo filosofica, ma non esistenziale. La cultura dei diritti non sta producendo coscienza dei diritti. Lo scollamento tra essere e dover essere impone una riflessione critica che coinvolge entrambi i poli. E per non scadere nell’ennesimo bipolarismo manicheo, diamo per scontata una premessa: per dieci cinici, indifferenti, menefreghisti, ce ne sono cento e anche di più che si spendono, anima e corpo, per rendere l’Italia, l’Europa, luoghi vivibili per ogni persona perché di tale si tratta, persona, nella sua unicità preziosa, patrimonio comune da salvaguardare da ogni bruttura.

Detto ciò, non possiamo esimerci da un approfondimento che richiama alla mente quello che Antonio Gramsci scrisse nel 1923 ai giovani comunisti a fronte della sconfitta del movimento operaio, ovvero l’amara conclusione del biennio rosso: "Noi non conosciamo l’Italia così com’è realmente e quindi siamo nell’impossibilità di fare previsioni, di orientarci, di stabilire delle linee d’azione che abbiano una certa possibilità di essere esatte".  Inutile, se non dannoso, stracciarci le vesti ogni qual volta dall’alto della nostra supponenza vediamo in azione forze di regressione. Inutile, se non dannoso, liquidare con facili etichettature che ci collocano sempre dalla parte degli innocenti. L’abuso delle classificazioni, gli anatemi, l’incapacità di ragionare su comportamenti, fenomeni, sulle loro dinamiche interne, fanno parte di quella tendenza, mai tramontata, di semplificare la complessità, anzi di non voler affrontare la complessità. Perché la realtà del mondo è complessa, la natura umana è complessa così come l’ambiente che ci circonda, compresi i cambiamenti climatici.

Prendiamo come caso emblematico proprio il lavoratore indiano con il braccio amputato. Cos’è che non ha mosso, appunto, le coscienze? Perché la notizia non ha aperto i telegiornali? Perché non ha prodotto scandalo? Com’è che questa e altre analoghe vicende che calpestano uomini, donne, bambini, questi sì davvero innocenti, come dagli albori della storia, reietti, emarginati, ultimi della terra, non suonano da monito? Mancanza di morale o eccesso di morale, che scade in moralismo di facciata? Mancanza di empatia o eccesso di empatia, che nell’affrontare ogni situazione in termini emozionali finisce per indurre nell’opinione pubblica meccanismi di difesa e quindi di auto-isolamento? Sono provocazioni, ma lasciamoci tentare da esse.

E’ diffusa l’accusa a questo nostro tempo come tempo di relativismo e lassismo morale. Il fai-da-te ha pervaso molti ambiti, in primis i campi dell’etica e della religione. Il costruirsi dei codici a propria misura è la logica prevalente sulla quale s’inserisce il mercato, che la tecnologia ha reso sempre più capace di intercettare tali bisogni, plasmarli, orientarli, renderli fecondi di altri bisogni. L’homo consumens, di cui scrisse Zygmunt Bauman, performa l’agire morale al suo sentire come necessario per lui/lei in quel momento, in un fluire continuo, altalenante, di emozioni e sentimenti.

Quale imperativo morale potrebbe interrompere il formarsi di una filosofia di vita che fa dell’ego il suo dio? All’opposto, l’idea universalistica che riconosce soltanto interessi collettivi e non individuali, non ha forse prodotto il suo opposto ovvero la ricerca personale della felicità, del proprio ‘stare bene’? Se osserviamo attentamente, nei nostri sistemi socio-economici-culturali si fa ampio uso della morale. Da un lato una visione che nell’assolutizzare l’ego e i suoi bisogni, entra in cortocircuito poiché una morale che renda l’io misura di tutte le cose è destinata a negare tutti gli io. L’ egotismo, in realtà, mortifica l’io proprio assolutizzandolo, privandolo della dimensione relazionale che le è propria, quella che lo fa crescere, lo valorizza.

Il filosofo Byung-Chul Han nel suo libro "La crisi della narrazione", a un certo punto scrive che i "consumatori non formano una comunità, non formano nessun noi" e che anche "la morale diventa qualcosa da consumare, dal momento in cui alcuni determinati beni vengono infiocchettati con narrazioni morali, come ad esempio nel caso del commercio equo".  A prescindere dal suo esempio, è sufficiente accendere la televisione e osservare i vari spot per rendersi conto come la morale sia scaduta in moralismo e, soprattutto, strumentalizzata a fini impropri. Dall’altro la negazione o mortificazione dell’io in quanto tale è foriero di altrettanti sbilanciamenti: se non mi riconosco portatore/portatrice di diritti, tanto meno saprò riconoscerli negli altri.

Hanna Arendt ne "Le ragioni del totalitarismo" sosteneva che il nazismo ha rappresentato un vero e proprio processo di nientificazione: uccisione della personalità giuridica, eliminazione dei diritti, distruzione della personalità morale, uccisione della unicità. Chi è indifferente al bracciante con il braccio mozzato non è detto che appartenga al gruppo A di coloro che pensano soltanto a sé stessi. Potrebbe anche appartenere al gruppo B di coloro che ritengono irrilevante il singolo e irrilevante l’agire a beneficio del singolo, pensando che ogni problema non possa che risolversi strutturalmente in una dimensione sovra-individuale, ad esempio cambiando le leggi sul bracciantato, punendo più severamente chi ne abusa, migliorando radicalmente le condizioni dei lavoratori. Ma in un pensiero dove l’io si perde, di fatto si perde ogni dimensione umana. Non ritengo degno di menzione chi ignorerebbe il poveretto se ne scoprisse un orientamento politico che disapprova. L’ eccesso di morale, dunque, che porta al moralismo, a un’ortodossia di pensieri e comportamenti ideologici e spesso soltanto di forma, non portano ad alcun passo in avanti nella ricostruzione di una società che innanzitutto si percepisca come tale.

Sembra strano a dirsi, ma la centralità da recuperare è quella della politica. Ancora Arendt riteneva che il secondo momento più importante della nostra vita dopo la nascita, e di questo dono dovremmo averne cura per il resto dei nostri giorni, è la politica come contesto in cui entriamo in relazione, spazio interattivo dove avviene la seconda nascita, quella dove non sono più solo/a, ma mi scopro interconnesso/a con un ambiente, umano e non, di cui sono parte. Il senso della polis, della civitas, di essere soggetto di un agire personale di valenza pubblica forma quella cittadinanza dove il bisogno dell’altro ci interpella e stimola una risposta che dall’orizzonte dell’io sconfina nelle ragioni del noi.

La comunità che si stringe attorno a un uomo, una donna, una bambina che piange, che è nel dolore, nella sofferenza, è una comunità che di quel dolore vuole condividerne il peso, farlo suo e riscattarlo. C’è una parabola laica nel Nuovo Testamento, quella del buon samaritano che ancora oggi ha molto da dirci. Sulla strada da Gerusalemme a Gerico c’era il nostro bracciante sanguinante (letteralmente il testo narra di un malcapitato che s’imbatté in briganti che lo derubano di tutto e lo ferirono gravemente). A soccorrerlo non fu il sacerdote e neppure un ministro del culto, ma un laico, probabilmente in viaggio per affari, probabilmente un mercante. Eppure si ferma, gli presta le prime cure, lo conduce in un luogo sicuro e offre del denaro perché prosegua la sua convalescenza. Non sappiamo che cosa abbia indotto il samaritano a farsi prossimo dello sconosciuto. Ma è la dimostrazione che non è la semplice adesione a una chiesa o a dei principi morali o religiosi a farci attraversare la strada per correre in aiuto di chi ha bisogno. Prima che sia troppo tardi, è doveroso aggiungere con il pensiero rivolto a una vita perduta, a Satnam Singh.

 

  

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