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Stati Uniti e Arabia Saudita "garanti" della pace in Palestina

di Maurizio Jacopo Lami


"Il deserto coi suoi silenzi assoluti, con i suoi orizzonti senza fine porta a sentimenti estremi.

Chi vive qui cerca la pace assoluta.

O la guerra eterna"

Lawrence d'Arabia


"Si può immaginare di arrivare per stanchezza reciproca ad un armistizio fra Ucraina e Russia; si può sperare che la Cina rinvii sine die l'aggressione a Taiwan perché scoraggiata dall'atteggiamento fermo degli Stati Uniti; si può ragionevolmente ipotizzare che il dittatore coreano Kim si limiti a minacciare l'Occidente perché in realtà è un vigliacco che non ha nessuna intenzione di morire in battaglia; è invece davvero superiore alle capacità di previsione di questa Agenzia immaginare tutte le varianti possibili , positive e negative, di un tentativo di accordo fra Israele e Palestinesi: i fattori negativi e i possibili imprevisti superano perfino i limiti dello scibile umano"

Sintesi finale del rapporto di inizio settembre redatto dalla CIA sui principali focolai di tensione nel mondo.


È destino che le sorti di Israele, la terra del profeta Abramo, la terra dove i profeti predicano nel deserto, la terra che Mosè non arrivò a vedere, la terra dove Gesù fece il Discorso della Montagna, la terra dove Maometto salì al cielo, la terra sogno ed incubi dei Crociati, si decidano forse in un altro deserto da sempre simbolo di profeti e grandi passioni: l'Arabia Saudita.

Qui, infatti, lo Stato più intraprendente del Medio Oriente ( e si tenga conto che nel Medio Oriente le sorprese sono pane quotidiano) sta cercando insieme al presidente degli Stati Uniti Joe Biden di tessere l'accordo più difficile ed ambizioso del mondo: stabilire relazioni stabili e proficue, avviare collaborazione tecnologica, e aiutarsi a vicenda nell'opporsi al terrorismo con un Paese da sempre sono nemico per definizione, anche a distanza e per procura, laddove Egitto (fino agli accordi di Camp David nel 1978), Siria Giordania, Libano e Iraq offrivano uomini e mezzi per combattere. Ma è un progetto ambizioso, sostenuto dal principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, se non altro perché ambizioso è il progetto di decifrare l'incognita Israele, o meglio il governo di Benjamin "Bibi" Netanyahu, la cui empatia con gli Stati Uniti della presidenza Biden è al minimo storico.

All'opposto, le nuove forniture di armi offerte dalla Casa Bianca a Riad non sono elemento divisivo, se non altro perché rientrano nella sfera d'interesse israeliana che non ha mai alzato la voce per il sostegno americano dato all'Arabia Saudita nel teatro di guerra dello Yemen che la contrappone all'Iran degli Ayatollah, cioè il primo nemico dichiarato di Tel Aviv.

Terzo elemento dell'accordo, scottante e controverso, è la proposta di una soluzione per il popolo palestinese puntellato dalla disponibilità di Israele a concedere maggiore autonomia nei Territori e a Gaza, e a dare corso a un'amnistia dei detenuti politici, insieme con altre concessioni non secondarie per gli interessi dell'Autorità palestinesi.

Se l'accordo dovesse prendere forma, nessuno potrebbe negare la sua portata storica, perché rivoluzionerebbe il quadro geopolitico dell'intero Medio Oriente. Ma le difficoltà che si frappongono alla riuscita sono davvero notevoli, anche se non presentano implicazioni economiche. Il che non deve stupire, perché segue una precisa logica "commerciale": l'Arabia Saudita è un paese ricchissimo alla ricerca di nuove soluzioni d'investimento, mentre Stati Uniti e Israele sono entrambi alle prese con i conti pubblici in crescita e un'inflazione da tenere sotto controllo, quindi sensibili ai petrodollari sauditi.

In altre parole, dall'intesa deriverebbe un vantaggio economico enorme anche per gli altri paesi della regione i cui regimi ricalcano in toto - non lo si dimentichi - il sistema autoritario dell'Arabia Saudita. Ad un tempo, ed è ciò che potrebbe superare le diffidenze di Netanyahu, la ripresa del dialogo verrebbe letta in Israele come un rilancio degli accordi di Abramo con i paesi arabi sunniti in funzione anti-Iran sciita.

Naturalmente, l'accordo a tre darebbe a Biden una carta importante per controbilanciare l'opposizione repubblicana alla guerra pro Ucraina in vista delle elezione del prossimo anno a novembre 2024, la cui rielezione è tutt'altro che scontata, indipendentemente dalla discesa in campo di Donald Trump, sempre alle prese con i suoi guai giudiziari.

Ma esistono due ostacoli che rischiano di vanificare tutto. Il primo è la composizione del governo di Netanyahu che fa leva sulla mobilitazione dei partiti di estrema destra che predicano "la Grande Israele, dalle spiagge del Mediterraneo alle foci dell'Eufrate" e sostengono a spada tratta le migliaia e migliaia di coloni ebrei insediati in zone contese ai palestinesi. Per costoro la semplice idea di concedere più autonomia ai palestinesi, ritirare i coloni abusivi, cedere Gerusalemme Est agli arabi, e riconoscere uno stato palestinese suona come improponibile.

Lo è anche per il premier israeliano che gode di un alibi che gli viene riconosciuto anche dalle opposizioni: insieme con la questione dei territori occupati, vi è la necessità di contenere il supporto dei gruppi più oltranzisti (Hamas e Jihad islamica) da parte di Iran o di simpatie verso gli ayatollah. E non si tratta di un alibi pretestuoso perché negli ultimi mesi lo scontro si è spostato anche in Cisgiordania e ha messo in evidenza da una parte la frattura fra i palestinesi e l'Autorità Nazionale Palestinese e dall'altra ha fatto scoprire un'erosione imprevista di fiducia dei cittadini arabi-israeliani verso il proprio governo a Tel Aviv. Schematicamente, si potrebbe parlare di "basi-popolo" contro "vertici-governanti", siano essi ANP o governo Netanyahu con effetti che, secondo logica, vanno in un'unica direzione: la formazione di un nuovo terrorismo di arabi-israeliani della Cisgiordania a favore soprattutto di Jihad islamica.

Il secondo ostacolo, che si salda direttamente al primo, come è facile comprendere, è la disperazione palestinese, la disperazione dei vinti, su cui Washington non ha mai speso un gesto di favore. Vinti per i quali, dopo le sconfitte passate, la parola dello Sceicco non può che arrivare flebile, se non impotente, in assenza di rapidi risultati concreti. Tuttavia, è altrettanto evidente che nel Vicino oriente si sta coagulando una potente rete d'informazione (o disinformazione?) per screditare i vertici palestinesi accusati di terrorismo, di corruzione, di arricchimento personale, di asservimento all'Iran, una rete gestita da Stati Uniti e Arabia Saudita, locomotive di questo processo di avvicinamento tra nemici storici.

Per contro, è umanamente comprensibile la stanchezza del popolo palestinese per una politica che si basa sulla predicazione dell'odio e sulla violenza, estranea a una reale prospettiva di affacciare una soluzione pacifica con lo Stato d'Israele, il cui estremismo è direttamente proporzionale alla radicalizzazione della lotta palestinese. In questo contesto, il livello di persuasione degli Stati Uniti sarà pari alla forza con cui s'imporrà su Abu Mazen, il presidente dell'Autorità palestinese, già consigliato dalla Casa Bianca a non minare le proposte di normalizzazione saudite.

Vedremo se le sabbie del deserto ci porteranno guerra o pace. Bisognerà ascoltare con attenzione il sibilo del Ghibli, il vento del deserto che colpisce all'improvviso e vanifica ogni progetto.




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