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Sanità a pensioni: caos nel caos 


di Emanuele Davide Ruffino e Giuseppina Viberti


Le pensioni rappresentano un rebus di difficile risoluzioni per tutte le economie occidentali, specie per quelle realtà dove le politiche di Welfare hanno tentato di scollegare il trattamento pensionistico a quanto effettivamente versato, creando, con l’andare del tempo, situazioni sempre più insostenibili causa gli andamenti demografici e la capacità di gestire la problematica in un’ottica di lungo periodo. A ciò, in Italia, si aggiunge una confusione sui dati, causa la continua ricerca di consensi, che rendono incomprensibile la gestione. A volte i dati sembrano essere pubblicati con tempistiche sospette per avvalorare qualche tesi contingente, anche perché prevedere cosa succederà fra decine di anni è una materia esclusiva degli stregoni. L’ultima che, per chi entra nel mondo del lavoro oggi, dovrà andare in pensione a 71 anni (previsione Ocse contenuta nel Rapporto 'Pensions at a glance'), pensando che alzando l’asticella, si possano far passare provvedimenti irrazionali ed iniqui: salvo poi ricorrere in modo scoordinato con deroghe e forme clientelari per accontentare pressioni varie.

 

Il perimetro dei dati

Gli andamenti demografici si vanno a consolidare nel corso degli anni (e con il Covid hanno visto un rallentamento dell’invecchiamento medio della popolazione), ma oggi sembra essere diventata un’emergenza (mentre non lo era quando l’età media cresceva e si emanavano le quote 100 e 102): da sottolineare il diverso comportamento dei governi tecnici, quello di Monti, che con la Fornero, ha applicato la massima severità e quello di Draghi che, confermando il sistema delle quote per un anno, sembra aver abbracciato un approccio di rincorsa al consenso senza una visione prospettica.

Un altro dato anomalo contraddistingue il sistema italiano: mentre l'aliquota media dei contributi effettivi nei paesi Ocse è del 18,2% del livello salariale medio nel 2022, l'Italia raggiunge il 33%! E se è vero che il tasso di occupazione, in Italia è inferiore alla media, negli ultimi anni questo ha raggiunto i livelli massimi (i tassi di occupazione sono migliorati nel 2021, superando i livelli pre-pandemia in 23 Paesi OCSE). Eppure solo oggi si grida che il sistema è diventato insostenibile e si richiede sacrifici indiscriminati, senza tener conto delle situazioni oggettive come quella sanitaria, dove è cronica la mancanza di professionisti. Così da prospettare una riduzione negli anni futuri che invita alla fuga dal sistema, sapendo che poi possono trovare facili impieghi meno stressanti, appena andati in pensioni.

 

Le alchimie pensionistiche

Il non procedere con una risposta organica di lungo periodo fa si che vengano emanati provvedimenti estemporanei dove i singoli, in uno slalom burocratico-amministrativo, cercano, non il comportamento più razionale (rimanere, se il loro lavoro risulta ancora utile alla società e appagante per loro) ma rispondente a ragioni di cassa per cui alcuni devono soddisfare le esigenze di altri, dribblando le combinazioni delle quote, il rientrare in qualche deroga o appartenere ad una categoria forte di cui il sistema non può fare a meno. L’ipotesi che con l’ennesimo cambio normativo e con una legislazione sempre più incerta (e foriera di sorprese) spinge i singoli ad approfittare delle combinazioni.

La situazione è insostenibile perché nei decenni passati (ed ancora oggi) si sono concesse pensioni senza una corrispondenza a quanto versato, trasformando il sistema pensionistico in un bancomat previdenziale. In questi anni non si è mai avuto il coraggio di distinguere i due aspetti generando una doppia fiscalità, in quanto chi paga i contributi è costretto a sostenere spese di carattere sociale.

 "L'Italia è uno dei nove paesi Ocse – precisa il rapporto OCSE - che vincolano il pensionamento legale per età con la speranza di vita. In un sistema contributivo tale collegamento non è necessario per migliorare le finanze pensionistiche, ma mira a evitare che le persone vadano in pensione troppo presto con pensioni troppo basse e per promuovere l'occupazione". Da precisare che in media, nei paesi OSCE si va in pensione con il 61% dello stipendio (in Italia con 83%) con il risultato che il reddito medio delle persone di età superiore ai 65 anni in Italia "è leggermente superiore (103%) a quella della popolazione totale". Ma anziché valutare i contributi versati ed equilibrare le diseguaglianze accumulate nel corso degli anni, ci si arrovella nel contare per quanti anni si è versato: quindi basta versare poco, ma per tanti anni, e si può andare in pensione. Un chiaro incentivo all’evasione, anche perché chi non versa niente, hai poi per “ragioni umanitarie” diritto alla pensione (ed il costo ricade non sulla fiscalità generale, ma su chi versa i contributi (11 % del 16,3% della spesa pensionistica) ed il resto sul deficit dello Stato.


Sempre alla prese con annosi "aggiustamenti"

In quasi tutti i paesi occidentali si è progressivamente assistito a rimodulazioni dei regimi con un maggiore ricorso a programmi pensionistici a capitalizzazione gestiti dal settore privato (Pension Markets: in Danimarca, Paesi Bassi e Svezia, la legislazione non impone ai datori di lavoro d’istituire un piano per i propri dipendenti ma tutto avviene su basi volontarie o attraverso accordi di contrattazione collettiva). Sono queste le probabili evoluzioni per rendere sostenibili i sistemi nel lungo periodo. Non a caso, negli USA, nella scelta tra i possibili impieghi, assume un ruolo sempre più determinante il regime pensionistico: in Italia siamo ancora nel rivendicare di anno in anno, qualche aggiustamento che non si sa come finanziare. Succede così che per finanziare l’eccezione per la pensione dei medici e degli altri operatori sanitari, si riduca il finanziamento del Servizio sanitario nazionale. Siamo ancora nella fase che si può sistemare tutto con un maggior intervento dello Stato.

L’ultimo aggiustamento approvato dalla Commissione Bilancio permetterà ai sanitari di lavorare fino a 70 anni, su base volontaria, penalizzando quelle anticipate, ma con un taglio più soft e con una riduzione di un trentaseiesimo del taglio per ogni mese in più di permanenza al lavoro. Non ci saranno dunque tagli alle pensioni di vecchiaia di medici, operatori sanitari, dipendenti degli enti locali, ufficiali giudiziari e insegnanti, mentre, ad esclusione del settore della sanità, vengono confermati i tagli a quelle anticipate. Nel settore della sanità, invece, la decurtazione diminuirà man mano che si ritarderà l'anticipo del pensionamento. Non certo una riforma, né una soluzione ai problemi della sanità, ma l’ennesimo rinvio.

 

 

 

 

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