Proteste studentesche Usa e crepe nel potere politico
Aggiornamento: 7 mag 2024
di Stefano Marengo

Chiunque visiti il sito internet della Columbia University potrà trovare nella sezione News un breve contributo con il quale l’università esprime rammarico per la violenza poliziesca di cui furono vittime gli studenti che, nel 1968, occuparono il campus in segno di protesta contro la guerra in Vietnam.[1] Chi apra quella pagina in questi giorni, tuttavia, non potrà fare a meno di leggere anche l’avviso pop-up che notifica le severe limitazioni nell’accesso al campus adottate a seguito delle mobilitazioni studentesche per la Palestina sgomberate con la forza dalla polizia di New York.
L’accostamento si presterebbe a interminabili ironie. A risaltare, però, è la pertinenza del parallelo che viene suggerito tra gli Stati Uniti dei tardi anni Sessanta il contesto odierno. Come è noto, il biennio 1967-1969 fu un periodo di profonda discontinuità per il mondo uscito dalla Seconda guerra mondiale, e ciò fu reso possibile, almeno in parte, dagli eventi che caratterizzarono il conflitto in Indocina nel 1968. Nella notte tra il 30 e il 31 gennaio di quell’anno, infatti, l’esercito del Vietnam del Nord e i vietcong lanciarono un’operazione militare di ampio respiro contro il Vietnam del Sud e l’esercito americano, un’iniziativa – passata alla storia come Offensiva del Tet – che durò diversi mesi e si concluse con un esito paradossale, vale a dire con una vittoria tattica americana che fu, al contempo, un successo strategico per i nordvietnamiti. In breve, accadde che, dal punto di vista strettamente militare, gli statunitensi riuscirono a respingere l’attacco, e tuttavia si resero anche conto di essere estremamente vulnerabili e di non avere alcun reale controllo del territorio. Il Vietnam del Nord, insomma, colpì l’esercito USA nel morale e mise a segno un formidabile punto politico: da quel momento in poi fu sempre più chiaro che Washington, pur magari vincendo alcune importanti battaglie, avrebbe alla fine perso la guerra. È il caso di osservare che, verosimilmente, era proprio a questo l’esito che mirava fin dall’inizio il generale Giap, tra i più grandi geni strategici del Novecento.
L’Offensiva del Tet avviò il processo al termine del quale le crepe che già si erano manifestate nel campo americano sarebbero diventate delle vere e proprie voragini. Occorre infatti ricordare che già nel 1967, a fine novembre, avevano fatto parecchio rumore le dimissioni del Segretario alla Difesa Robert McNamara, grande amici dei Kennedy, convinto assertore di un piano di fuoriuscita dal pantano vietnamita e collettore, a questo scopo, dei cosiddetti Pentagon Papers. Se questo non fu sufficiente a mutare l’inerzia dell’amministrazione Johnson, disposta a dare ancora ascolto unicamente ai falchi del complesso militare-industriale, le cose iniziarono ad assumere una coloritura diversa nella primavera successiva, quando le notizie che giungevano dal fronte scatenarono un’enorme ondata di proteste tra gli studenti americani, che diedero corso alle prime occupazioni dei campus universitari, a cominciare proprio dal campus dalla Columbia. Tra l'altro, ieri come oggi, alla Casa Bianca vi era un presidente democratico e a guardarne il fallimento un aggressivo candidato repubblicano: ieri Richard Nixon, finito nella polvere del Watergate, oggi Donald Trump che si dibatte nella morsa giudiziaria dopo Capitol Hill.
Sul finire degli anni Sessanta, le élites politiche, incapaci di comprendere la portata del fenomeno e il suo significato per una popolazione già largamente refrattaria alla guerra, risposero con la più autoritaria delle repressioni e giunsero a mobilitare la Guardia Nazionale contro manifestanti disarmati. Non si resero conto che, così facendo, non solo non avrebbero arrestato la protesta, ma avrebbero corso il rischio di alimentata. Fu esattamente quello che accadde: nel volgere di qualche settimana i focolai di rivolta si estesero a macchia d’olio a tutto il paese e varcarono l’Atlantico, investendo prima un’Europa già in subbuglio e poi il resto del mondo. L’epilogo della vicenda, poi, è fin troppo noto: la contestazione, in varie forme, proseguì per anni e la guerra del Vietnam fu definitivamente perduta; ma soprattutto ci si ritrovò in un contesto in cui la narrazione ideologia che aveva accompagnato i primi due decenni di guerra fredda e, a partire dai fatti del Golfo del Tonchino, giustificato l’escalation del conflitto in Indocina, smise semplicemente di essere creduta.
Non sfuggiranno analogie e differenze rispetto al contesto attuale. A sette mesi dall’inizio dell’operazione Diluvio di al-Aqsa e della guerra su Gaza, è piuttosto chiaro come Israele non sia in grado di raggiungere nessuno degli obiettivi che hanno giustificato la campagna militare, ossia, in ordine di importanza per Tel Aviv, il ripristino del potere di deterrenza dell’IDF, la distruzione completa di Hamas e la liberazione dei civili catturati il 7 ottobre scorso. L’impressione, arrivati a questo punto, è che le forze armate israeliane, tra le meglio equipaggiate e addestrate del mondo, potrebbero anche radere completamente al suolo la Striscia di Gaza, ma questo sarebbe soltanto l’esercizio di un dominio irrazionale e parossisticamente violento, non già il segno di una vittoria che dovrebbe essere anzitutto politica.
Il premier Netanyahu, pur nel suo visibile accanimento militare, è ben consapevole di questo aspetto, e non a caso manifesta sempre più frequenti segni di nervosismo. In secondo luogo, a essere messa in questione è una condotta della guerra che vede, tra l’altro, l’uccisione indiscriminata dei civili, il bombardamento intenzionale di tutte le infrastrutture vitali per la popolazione gazawi (a cominciare dalla rete sanitaria), l’utilizzo della fame come strumento bellico e l’esecuzione sommaria di centinaia di prigionieri i cui cadaveri sono stati da poco rinvenuti in diverse fosse comuni. Per tutto questo Israele dovrà rispondere dell’accusa di genocidio di fronte alla Corte Internazionale di Giustizia, e non è affatto escluso che, come riportato da diverse fonti, la Corte Penale Internazionale possa emettere a breve dei mandati di cattura per i vertici politici e militari israeliani.
Il martirio di Gaza, sin dal suo inizio, ha provocato una mobilitazione internazionale che ha pochissimi precedenti, con lunghissimi cortei che ogni settimana, in questi mesi, si sono svolti nelle capitali e nelle principali città di tutto il mondo. Cosa ancora più significativa, in prima fila a difesa della Palestina si sono sempre schierati tantissimi ebrei che rigettano ogni rapporto con il sionismo e lo Stato di Israele. Ma ciò che in queste settimane sta accadendo negli Stati Uniti è qualcosa di ulteriormente inaudito per la storia dei rapporti Israele-Usa.
Nel cuore dell’impero americano, che è anche l’alleato d’acciaio di Israele, gli studenti hanno occupato i campus o indetto significative proteste in almeno un centinaio di università, a partire, anche questa volta, dalla Columbia e da altri blasonatissimi atenei (da Harvard a Berkeley, dal MIT a Princeton, da Yale alla University of California di Los Angeles, dal Dartmouth College alla Brown University, dalla Penn State University alla University of Texas di Austin). La protesta, di carattere non violento e partecipata anche da numerosissimi docenti, è risultata subito molto efficace perché, nel chiedere il cessate il fuoco e libertà per la Palestina, si è dotata di un programma molto concreto, ossia la richiesta alle amministrazioni universitarie di disinvestire i fondi impegnati in quelle aziende che stanno traendo profitti dalla guerra e dall’occupazione della terra palestinese. È naturalmente difficile stimare le cifre esatte che sarebbero in ballo, ma ci si può almeno fare un’idea del loro ordine di grandezza se si considera che il totale degli investimenti dei trenta principali atenei USA ammonta a circa 500miliardi di dollari.
La reazione dell’establishment non si è fatta attendere e, oggi come nel 1968, la polizia sta sgomberando con violenza i campus occupati e arrestando centinaia di studenti e insegnanti. In alcuni casi, come è accaduto alla UCLA (Los Angeles), l’intervento della polizia è stato preceduto dall’irruzione brutale di gruppi filosionisti che hanno aggredito gli studenti lanciando oggetti e grossi petardi e diffondendo non identificate sostanze chimiche. L’impressione è che l’establishment universitario, spalleggiato dalla politica, dalle forze dell’ordine e dai media, stia cercando l’incidente, una reazione scomposta da parte degli studenti per portare a termine una repressione draconiana. Finora ciò non è avvenuto, anzi, proprio come accadde alla generazione dei loro nonni, gli studenti sembrano ancora più motivati a proseguire la protesta.
Un’ulteriore analogia con il 1968 sta nel fatto che simili azioni repressive fanno emergere, oggi come allora, il volto di un potere sostanzialmente debole, incapace di persuadere e perciò disposto all’esercizio della forza bruta e all’adozione di narrazioni sempre più mistificanti. Su quest’ultimo punto, però, le vicende del passato e del presente iniziano a divergere sensibilmente. Oggi infatti gli studenti vengono bollati come “fiancheggiatori dei terroristi”, “complici degli ayatollah”, “desiderosi di distruggere Israele”, “animati da puro odio antisemita”. In questo modo, si sostiene, metterebbero a repentaglio “la sicurezza degli studenti ebrei”. Si tratta di una narrazione interamente falsa, che crollerebbe come un castello di carte appena si osservasse che, tra coloro che occupano i campus universitari, ci sono appunto migliaia e migliaia di studenti ebrei antisionisti che dichiarano di sentirsi del tutto sicuri e a proprio agio; ma naturalmente si tratta di un “dettaglio” che viene sistematicamente omesso nei discorsi dei politici e nei servizi giornalistici.
Ancora più significativo è poi il fatto che questa repressione avvenga non nei confronti di una contestazione direttamente rivolta al governo degli Stati Uniti, ma a un paese straniero, ossia Israele, il che evidentemente significa che Washington è di gran lunga più interessata al proprio rapporto con Tel Aviv che all’opinione e all’incolumità dei suoi cittadini universitari. Se questo tratto, per certi versi, conferma la crisi strutturale in cui da tempo versa il sistema di potere statunitense, esso ci fornisce anche una prova indiretta – l’ennesima – della potenza delle lobby filoisraeliane attive negli States. A questo riguardo non sarà peregrino notare come l’establishment a stelle e strisce abbia fatto per anni un gran discutere delle possibili infiltrazioni russe nella politica americana, ma oggi che a essere conclamata è l’influenza di Israele e dei suoi gruppi di pressione lo stesso establishment appare all’improvviso afasico.
Questo grave atteggiamento ha raggiunto il culmine ieri l'altro, mercoledì 1° maggio, quando la Camera dei Rappresentanti ha approvato in prima lettura una proposta di legge che identifica come antisemite le critiche rivolte a Israele e alle sue politiche. Se la propaganda filoisraeliana si è sempre nutrita della falsa equazione tra antisemitismo (l’odio nei confronti di individui e di gruppi per via del loro essere ebrei) e antisionismo (la critica di un agire politico ispirato a una precisa ideologia), con questa innovazione normativa, qualora venisse definitivamente recepita, ci troveremmo in uno scenario tanto grottesco quanto pericoloso. Pensiamo di nuovo alle centinaia di migliaia di ebrei americani antisionisti che, in questo modo, verrebbero accusati per legge di essere antisemiti. Cosa succederà loro? Li si metterà in galera con l’imputazione di odio e discriminazione nei confronti di se stessi? L’assurdità è plateale. Non si creda tuttavia che i legislatori siano così ingenui da non accorgersene.
In realtà ci troviamo di fronte a un caso tipico dell’utilizzo strumentale dell’antisemitismo per mettere a tacere il dissenso. Il problema è che, quando questo cliché propagandistico viene codificato in una norma, siamo davanti ad un attacco senza precedenti al primo emendamento della Costituzione statunitense, quello che garantisce la libertà di parola e di stampa – la stessa libertà, di nuovo, che in altri contesti gli USA sostengono di difendere contro le mire egemoniche russe.
Di fronte a ciò è comunque bene ribadire che il potere arriva a simili eccessi proprio nel momento in cui si percepisce più debole e precario, il che potrebbe forse innescare una spirale di oppressione e violenza, ma certamente non quieterà chi protesta e non farà venir meno le ragioni - anche intellettuali - della contestazione. A questo riguardo, c’è un elemento che caratterizza le occupazioni dei campus e che troppo spesso viene passato sotto silenzio, ossia la loro natura spontaneamente intersezionale. Attorno al punto di fuga della liberazione della Palestina, ossia una lotta anticoloniale, si distribuisce tutta una serie di questioni razziali, sociali e di genere che iniziano a fare sistema. Ancora di più, quello che sta lentamente prendendo forma è un blocco tra i “dannati della terra” (i palestinesi di Palestina come quelli della diaspora, ma anche i giovani neri, bianchi, asiatici e latini dei ceti popolari che hanno oggi accesso agli studi superiori) e gli eredi radicali della media borghesia che frequentano scuole di élites senza davvero riconoscersi né nella borghesia né nelle sue istituzioni. Sono relativamente rare, nella storia, le congiunture in cui un blocco del genere può formarsi e cementarsi. Quando però ciò avviene il mondo può davvero cambiare. È questo che terrorizza i detentori del potere, a qualsiasi latitudine essi si trovino.
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