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Proteste nelle università americane: l'usa e getta di Pasolini nel pensiero di Rampini

Aggiornamento: 6 giorni fa

di Stefano Marengo



Ogni volta che gli studenti si organizzano a sostegno di una causa c’è chi, in Italia, cita a sproposito i versi di Pier Paolo Pasolini sugli scontri di Valle Giulia. Il fenomeno è assimilabile a un riflesso pavloviano la cui unica virtù, a volerla per forza trovare, è quella di smascherare i veri tutori dell’ordine costituito.

All’incolpevole intellettuale, poeta, scrittore, regista, ucciso il 2 novembre del 1975, questa volta, è toccata, in ordine di tempo, la malaugurata sorte di ritrovarsi protagonista del sermone che Federico Rampini elargisce quotidianamente dal pulpito della webtv del Corriere della Sera. Nei giorni scorsi, infatti, gli strali delle bretelle che hanno l'ambizione di diventare le più famose del giornalismo italiano, scalzando quelle rosse indossate da Giuliano Ferrara decenni fa, si sono appuntati contro “i figli di papà pro Hamas” che hanno occupato la Columbia University, mentre un plauso sentito e commosso è stato dedicato poliziotti che “quelle università non se le possono permettere” e che, nella loro umiltà proletaria, hanno sgomberato i facinorosi ristabilendo la normalità liberale.

Era difficile attendersi qualcosa di meglio da un opinionista che, con la sua rubrica “Oriente-Occidente”, ha ormai da tempo sposato l’ideologia dello scontro di civiltà, con punte verso l'esasperazione da far arrossire l’intero codazzo neocon di George W.Bush. Naturalmente sarebbe fatica sprecata osservare ancora una volta come le parole di Pasolini fossero rivolte a un’Italia che non esiste più, alla distruzione di interi “mondi della vita” popolari per inseguire le sirene di plastica del consumismo trionfante e sotto l’egida di una perdurante mentalità fascista e dei suoi indispensabili complementi, ossia il risentimento e il vizio piccolo borghesi.

Tutto ciò a Rampini non interessa. A lui preme soltanto trovare un appiglio pur che sia per lanciare l’anatema contro gli studenti che hanno scelto di schierarsi contro il massacro del popolo palestinese. E così ogni cosa fa brodo, compresa l’elegia per la polizia americana che, oltre a essere ben nota per il ricorso sproporzionato alla violenza e per i suoi endemici problemi di razzismo - non facciamo l'elenco degli episodi per non bloccare il sistema del sito della Porta di Vetro... - , non è certo nella posizione, per il potere che esercita e le risorse di cui gode, di essere arruolata tra le schiere dei dannati della terra (a questo proposito, sia detto di passaggio, è lecito sospettare che il giudizio rampiniano sarebbe alquanto diverso se domani la polizia russa arrestasse centinaia di studenti universitari a Mosca o a Pietroburgo, azione che non avremmo difficoltà ovviamente a condannare, sia detto, per inciso e non di passaggio). D’altronde, anche a voler prendere per buono il Rampini vindice del proletariato americano – cioè quello che non si può permettere le esorbitanti rette delle università d’élite – tocca subito constatare come egli sia in stridente contrasto con il Rampini che, contro le orde asiatiche, si erge ad alfiere dell’ordine tardocapitalistico americano – lo stesso che fa esistere le università di élite e le loro rette esorbitanti.

Ma se Rampini, in definitiva, non è molto credibile nei panni di novello Che Guevara, non sarà forse perché da ogni sua frase traspare proprio quel risentimento piccolo borghese che Pasolini denunciò per tutta la vita? È sufficiente constatare quanto nervosamente e reiteratamente egli denunci gli “studenti pro Hamas” per rendersi conto che, probabilmente, non siamo molto distanti dal vero. Notevole, soprattutto, è la nonchalance con cui il nostro intraprende i più spericolati slittamenti semantici. Nella narrazione rampiniana, infatti, schierarsi con la Palestina significa sostenere Hamas, e sostenere Hamas significa spalleggiare il terrorismo che vuole la distruzione di Israele e del popolo ebraico, avanguardie dell’Occidente “giardino ordinato” circondato dalla giungla che vorrebbe invaderlo. Rampini, va da sé, si guarda bene dal menzionare il fatto che in prima fila, tra gli studenti “figli di papà”, ci sono decine di migliaia di giovani ebrei che rifiutano di identificarsi con Israele, che hanno scelto di lottare insieme ai loro compagni cristiani e musulmani per la libertà della Palestina. E se qualcuno avanzasse dei dubbi, consigliamo oggi, 26 aprile, di leggersi Haaretz, il quotidiano israeliano che ha ripreso con vigore la contestazione e le critiche a chi governa lo Stato Israele, il premier Benjamin Netanyahu.

Tutto ciò dimostra come minimo che i voli ideologici alla Rampini non hanno alcuna utilità per capire ciò che sta avvenendo. A spingere gli studenti americani all’azione non è la seduzione dell’estremismo, o addirittura del terrorismo, ma la passione politica, lo sdegno morale e, molto più semplicemente, l’umana empatia nei confronti di un popolo che da decenni, e oggi più che mai, patisce indicibili sofferenze per mano di uno stato, Israele, che da sempre gode del sostegno incondizionato dell’intero occidente. Questi e non altri sono i fattori che hanno condotto centinaia di migliaia di ragazzi e ragazze a mobilitarsi in oltre cento università americane, tra le quali figurano numerosi istituti tra i più blasonati e importanti del mondo, come Harvard, Princeton, Yale, Brown, MIT, Berkeley, oltre naturalmente alla Columbia.

Ma è proprio qui, in definitiva, che emerge il non detto degli opinionisti come Rampini, ciò che li infastidisce ed esaspera oltre ogni limite. Il problema, per loro, non è la protesta in quanto tale, ma il fatto che essa erompa dai santuari accademici in cui da sempre si forma l’establishment statunitense. Per i tutori dell’ordine costituito l’idea che questi luoghi possano essere inquinati da chi osa alzare la voce oggi per la Palestina, domani per i nuovi deboli, fragili o oppressi, e ancora di più la prospettiva che la classe dirigente del futuro stia crescendo a contatto con queste istanze di emancipazione e giustizia è qualcosa di assolutamente spaventoso e terrorizzante. Qualcosa di intollerabile.

È difficile immaginare un atteggiamento più viziosamente piccolo borghese.

 

 

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