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Oltre la crisi: default sociali e fantapolitica


di Emanuele Davide Ruffino e Germana Zollesi


Il punto debole delle democrazie è il dover rendere conto al popolo: la storia ricorda come Sir Winston Churchill fu sconfitto alle elezioni pur avendo da poco salvato il suo Paese, ma proprio lui ammoniva che “La democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora”. Noi siamo fortunati ad appartenere al mondo democratico, non fosse altro perché se non ci riteniamo tali potremmo andarcene altrove quando vogliamo o cambiare la classe dirigente con il voto. Ma nel contingente sembra esserci troppa attenzione al tirare “a campà”, che non permette di guardare al di là dell’attuale crisi. I rappresentanti politici hanno scientemente subito un processo di delegittimazione da decenni ed oggi si richiede dai medesimi scatti di responsabilità rimarcando una profonda differenza tra il volere dei cittadini e chi li rappresenta, come testimonia sia gli alti livelli di astensionismo, sia il frequente cambio di espressione di voto.


Chi vuole distruggere la democrazia?

Se la politica e l’amministrazione della cosa pubblica fossero solo una questione tecnica sarebbe logico che a dirigerla fossero figure provenienti da un processo di selezione di tipo concorsuale. Se invece la materia riguarda la visione della crescita della società, il problema si sposta sull’interpretazione della vita dell’uomo in confronto a tematiche connesse alla consapevolezza di doversi dotare di regole, alla cui scrittura hanno pari prerogativa di partecipare tutti gli individui.


Nel pratico, nei Paesi occidentali si è sviluppato un forte vigore populistico e antisistema, sicuramente con intenti genuini, ma che oggi tornano a vantaggio di chi cerca di distruggere le democrazie: palese è stato l’entusiasmo di alcuni gerarchi russi alla caduta di Boris Johnson e di Mario Draghi. La Tass, l’agenzia di stampa russa, ha dato la notizia con enfasi in apertura dei telegiornali, testimoniando come si tratti ormai di una guerra tra culture e modi diversi di vedere il mondo.


Sul piano tattico il modello Putin risulta essere più determinato al punto di sembrare più efficiente: se si guarda però ai dissidenti che ha dovuto arrestare (l’ultimo Vladimir Mau, economista, non più in linea con il Cremlino), al numero di soldati morti sacrificati per la sua operazione speciale, all’andamento dell’economia russa (le sanzioni non riescono a fermare il pachidermico esercito russo, ma, come certifica l’Istituto ufficiale di statistica russo, Rosstat, molte filiere produttive sono state messe in crisi: ad esempio si è registrato un crollo del 97% nella produzione di auto), il termine efficiente non sembra rispondere alla situazione reale. E quindi teniamoci il nostro litigioso e un po’ inconcludente sistema.


Ci piacerebbe continuare a dettare l’agenda politica in base alla nostra sensibilità sociale, ricercando più dettagliate declinazioni dei diritti umani, invece pandemia, guerra e inflazione ci obbligano a trattare temi scomodi. E poco consola sapere che se in Italia l’inflazione è all’8%, in Russia è al 14%. La prima tentazione è quella di trovare qualcuno cui attribuire la colpa di tutto, ma il problema è più complicato. L’idea di un mondo piatto, dove si poteva selezionare e comperare un prodotto laddove costava di meno ed importarlo con relativa facilità, ha portato a rinunciare a produrre in proprio o a delocalizzare molte produzioni, ma poi succede che un evento imprevisto impedisce di attuare tutti gli algoritmi che permettevano di massimizzare i profitti, ma anche di trovare prodotti a buon mercato per tutti noi (se non anche di trovare organi da trapiantare, senza verificare troppo la provenienza).


Alcuni prodotti importati saranno pure costati poco, ma hanno consumato parte delle ricchezze accumulate. Una delle ragioni della ripresa dell’inflazione può essere ricercata proprio dal fatto che alcune produzioni, in un mondo un po’ meno globalizzato, devono essere riportate in loco: per necessità o perché, coscientemente, si preferisce avvalersi di più soluzioni affidabili (e con meno sfruttamento della manodopera nei Paesi sottosviluppati). Non si tratta solo più d’immaginare un magazzino virtuale da predisporre per tutti i beni e i servizi considerati indispensabili in modo da prevenire qualsivoglia evento avverso. Se così fosse stato, saremmo un po’ meno in balia dei ricatti russi (e su questo fronte si riscopre il valore della politica, nella sua capacità di offrire soluzioni ai problemi).


La crisi? Soluzione… per rimandare la soluzione dei problemi

L’illusione che i problemi si risolvano solo creando deficit o con il mantenere elevati acquisti di titoli pubblici dalla BCE è difficile da perseguire nel lungo periodo e rischia di incancrenire ulteriormente i problemi (che tempismo l’Italia a scatenare una crisi di governo una decina di giorni dopo che, il 1° luglio, è stato ufficialmente sospeso il QE-Quantitative Easing!). Forse alcuni politici auspicano le crisi per evitare di dover rincorrere tutte le pretese elettorali: dai provvedimenti che avrebbero dovuto aiutare le classi più povere in un’ottica di welfare, al definitivo arenarsi del superbonus del 110%, già oggi in “saturazione di capienza”, e tante altre prebende.


Anche la riforma delle pensioni, da sempre invisa a Draghi che, diversamente da altri argomenti, non accetta di finanziarla con ulteriore deficit, può essere rinviata per non soddisfare pretese sproporzionate per le casse dell’Inps, lasciando così spazio alle rivendicazioni pre-elettorali, ma rinunciando nel contempo ad attuare proposte non onerose, con buona pace dell’equità distributiva e rallentando quel processo di rinnovamento che proprio la necessità di riorganizzare il tessuto produttivo richiederebbe.


Un rinnovamento del sistema lavoro appare quanto mai necessario affinché il sistema riacquisti maggiore produttività, ma per ottenere questa finalità occorre, nel breve termine, una capacità di governo cui associare una dialettica tra i partiti e le forze sociali che improvvisamente si sono trovate davanti a responsabilità cui non erano preparati. La nostra società insegue miti e ideali sempre più condizionati dal mondo virtuale dei social che hanno avuto il merito di alimentare il pensiero critico e portare il dibattito a coinvolgere una moltitudine di persone, ma ha anche generato il substrato per la diffusione di fake news con la conseguenza di poter influenzare comportamenti e pensieri delle masse. In una fase dove i valori dell’Occidente sono messi in discussione occorre riportare la centralità dei dibattiti su tematiche in grado di illustrare i possibili scenari evolutivi in modo da riformulare e concentrare l’attenzione sugli effettivi asset che possono condizionare la difesa, prima ancora che lo sviluppo, della nostra società.

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