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La torinesità di Norberto Bobbio Il ricordo della città a vent'anni dalla morte

di Piera Egidi Bouchard


A vent’anni dalla morte, la città di Torino ha voluto celebrare in “Sala Rossa” uno dei suoi massimi cittadini, Norberto Bobbio (1909-2004): il professore, il filosofo del diritto e della politica , lo storico del pensiero politico, l’editorialista, lo scrittore. Uno dei più autorevoli “intellettuali pubblici” della cultura novecentesca europea - e non solo - perché le sue opere sono state tradotte in tutto il mondo.

Per il Consiglio comunale ha introdotto la presidente Maria Grazia Grippo, ricordando anche il tributo riconosciutogli dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, e  la lapide – a cura  del Centro Gobetti, di cui Bobbio fu fondatore con Ada Gobetti, Antonicelli, Galante Garrone e altri, e di cui fu a lungo presidente - che sarà apposta in via Sacchi 66, dove c’era  l’abitazione del professore, nonché il Sigillo civico, la massima onorificenza cittadina che gli fu conferita nel 2003.


Per il Centro Gobetti - promotore delle celebrazioni - è quindi intervenuta la vicepresidente Dora Marucco, che ha ricordato l’impegno di Bobbio come “filosofo militante”, il cui compito è di “pensare fino i fondo le cose, non i propri pensieri”. Bobbio infatti fu anche attento agli aspetti sociali della cultura, accettando la presidenza (dal 1950 al 1956) del “Centro nazionale del libro popolare”, per diffondere i libri colti alla popolazione, e per trent’anni dal 1976 fu collaboratore de “La Stampa”. Il legame con Torino gli derivava  dall’analisi del carattere della città: in “Trent’anni di storia della cultura a Torino – 1920-1950”, opera quasi autobiografica, egli ne fa emergere i caratteri peculiari, senza tacerne i limiti.

Questa “torinesità ” è stata illustrata anche dal figlio Andrea Bobbio, che ha ricordato come il suddetto libro si apra con Gobetti - morto giovanissimo in esilio -  e si chiuda con il suicidio di Pavese, il 27 agosto 1950. Il filosofo però fu anche “piemontese” (ambedue i genitori erano alessandrini), e del carattere  di questo popolo tracciò un ritratto: laborioso, leale, probo, di poche parole, obbediente ma non servile, un po’ tardo, ma fermo nei principi... Ma, riferendosi all’Alfieri, scrisse anche che sentiva la necessità di “spiemontizzarsi”... Eppure leggeva con molto gusto l’annuale Almanacco piemontese dell’amico editore Viglongo, a cui confessava: “Nonostante tutto il mio cosmopolitismo illuministico, sono un torinese”: incarnando i valori della sobrietà e della laboriosità, la sua vita è stata quasi un simbolo dello spirito di Torino.

La vicesindaca Michela Favaro a sua volta ha rilevato la necessità di non tradire quei valori, di ricordare le grandi personalità cittadine, e di educare i giovani al “metodo del dialogo”, esercitato da Bobbio, “uomo del dialogo”, dal cui esempio sono germogliate iniziative come la “Biennale democrazia” e le “Giornate della legalità”, e ha dato quindi la parola per la “Lectio magistralis” a Gustavo Zagrebelsky, che ha ricordato come le pagine scritte dal Maestro (“faccio il suo allievo, scusatemi” ha detto con la consueta, sottile ironia) “siano un dono destinato a tutti gli amanti della cultura. Un dono diviso in tre parti: Idee, Azioni, Morale.

“Bobbio è stato un ossimoro: semper idem nel metodo; sempre novus negli approdi.” Il metodo è aperto ai problemi, che vengono dall’esterno, ma  il metodo è fermo, è una “forma morale”, che rivela il mondo interiore dello studioso.

Nel suo pensiero si rileva l’attrazione per le “grandi dicotomie” (es. giovane/vecchio; pace/guerra; democrazia/autocrazia; fascismo/antifascismo; destra/sinistra; amico/nemico; uguaglianza/disuguaglianza - Rousseau e Nietzsche - ). Il pensiero dicotomico è essenziale in ogni campo del sapere: aut-aut; tertium non datur. Bisogna prendere posizione tra le diverse idee, ma il giudizio ha bisogno della conoscenza. I monisti sono semplicisti , perchè vogliono imporre un solo lato, mentre la pienezza sta nella duplicità, nella coppia, perchè genera contrasto: la duplicità è premessa di conoscenza profonda, perchè un lato illumina l’altro, e senza di essa verrebbe meno l’energia, la vita.

Per quanto riguarda poi gli atteggiamenti pratici, il filosofo  rileva alcuni elementi: la  tolleranza, non nel senso “gesuitico” come male minore, ma come bene maggiore, poiché suppongo che il pensiero diverso dal mio mi possa arricchire: ben venga dunque il dissenso, purché motivato e controllato.  Il dialogo  quindi è reciproca tolleranza: Bobbio è stato “uomo del dialogo”, pur essendo un intellettuale dicotomico. Nel vero dialogo, chi ci fa vedere un nostro errore, è un amico, perché ci fa un dono, dobbiamo essergli grati.

Quando parla di sé stesso, Bobbio dice “detesto i fanatici” (formula molto dicotomica!); il dialogo non è  sempre possibile, bisogna stabilire dei confini, oltre i quali non ci può che essere conflitto.

 E per quanto concerne le scelte concrete, l’impegno politico rivolto alla convivenza civile che egli praticò, vediamo il Bobbio semper novus: fermo sì nel suo metodo (semper idem),uomo di idee, ma anche un realista, che seppe cambiare posizione.

Per esempio, riguardo ai diritti umani, di cui fu grande sostenitore, alla fine del suo percorso descrive una realtà con parole che sanno di sconfitta, e dice “Se ne avessi tempo ed energie non scriverei il libro ‘L’età dei diritti’, ma ‘L’età dei doveri’.” Riguardo poi a un’altra formula, quella del liberalsocialismo, il loro equilibrio può spostarsi a seconda dei momenti storici: non è una formula teorica, ma un atteggiamento pratico, un atteggiamento mobile, a seconda di circostanze concrete. E intorno poi a quella che Bobbio definiva come “la più grande rivoluzione dei nostri tempi”, quella femminista, cosa dovremmo dire nella realtà di oggi?

A un intervistatore che gli domandava “In che cosa spera, professore?” (altra grande dicotomia: speranza o disperanza, anzi, forse la più grande di tutte, ottimismo o pessimismo), rispondeva: “In quanto laico, vivo in un mondo in cui è sconosciuta la dimensione della speranza. La speranza è una virtù teologica. Le virtù del laico sono altre: il rigore critico, il dubbio metodico, la moderazione, il non prevaricare, la tolleranza, il rispetto delle idee altrui, virtù mondane, civili.” "A nostra volta – ha soggiunto Zagrebelsky – possiamo domandare: sì, ma in vista di che cosa? Sono virtù fine a se stesse o c’è qualcosa di simile a una speranza laica, che dia loro un senso?".

Questo tema è acutissimo nel nostro tempo, quando si inseriscono nel mondo gravi crisi. Bobbio usa tre immagini tratte dal filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein (1889-1951) come paradigma della condizione umana: quella della mosca finita nel collo di una bottiglia; quella del pesce che si dibatte nella rete; quella di un uomo errabondo in un labirinto. Chi si salverà? L’unico che ha questa possibilità è il terzo, che procede a tentoni, ma che sa che c’è una via d’uscita, e che può farcela, con molta pazienza, un passo alla volta, sempre pronto a tornare indietro (l’etica del labirinto è quella del dubbio metodico): siamo e resteremo nel labirinto, il resto è sogno e illusione.  “Come uomo di ragione e non di fede so di essere immerso nel mistero. Il lume della ragione è prezioso. Ma è solo un lumicino.”

E alla fine della sua vita, questo grande intellettuale scrive: “Più dei concetti, contano gli affetti”, e, citando il Leopardi delle “Operette morali”, nel Dialogo tra Porfirio (il discepolo che si vuole uccidere) e Plotino, il maestro che risponde per dissuaderlo, con quelle parole conclude: “Confortiamoci insieme, andiamoci incoraggiando per compiere nel miglior modo la fatica della vita. Amici e compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, dopo che saremo spenti, essi molte volte ci ricorderanno e ci ameranno ancora.”(passim)


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