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La "quistione" delle Provincie riguarda più che mai i cittadini

Aggiornamento: 16 gen 2023

di Michele Ruggiero

"Chi fa che cosa" è uno di quegli espedienti dialettici, declinabili sia in forma assertiva, sia in forma interrogativa, che bene si presta nell'affrontare la "quistione" delle provincie italiane ritornata di stretta attualità a nove anni dall'approvazione del decreto Delrio (21 dicembre 2013). Un decreto che stabiliva in 30 articoli la soppressione di una storica istituzione amministrazione antecedente alla formazione dello Stato unitario e confermata dai Padri costituenti nella Carta costituzionale.[1]

Nella successiva conversione in legge, i 30 articoli furono accorpati in un testo unico di 149 commi noto come Legge il 7 aprile 2014 n. 56 "Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni", testo che rimane un esempio di impervia lettura per la sua oscura ossatura semantica oltre che zoppicante nella sua sintassi e grammatica su cui grava anche l'urgenza con cui lo si volle proporre ai due rami del Parlamento quale biglietto da visita del lato decisionista unito all'efficientismo dell'allora neonato governo Renzi.

Fu così che le provincie diventarono il capro espiatorio o l'agnello sacrificale dell'arrembante e spregiudicato Matteo Renzi, enfant prodige poco prodigioso, quanto ambizioso di coniugare in tempi rapidi la progettualità politica alla demagogica (sotto l'incalzare della piazza rumorosa dei grillini) riduzione dei costi della stessa. La soluzione legislativa che doveva decretare l'azzeramento dell'istituzione provinciale fu poi contrassegnata da un'abile quanto strumentale campagna mediatica finalizzata a demonizzare i costi e il numero dei dipendenti delle provincie per giustificarne, in ultima istanza, la loro inutilità agli occhi degli italiani.

In realtà, guardata in retrospettiva, la legge Delrio fu un autentico colpo di mano del governo Renzi che mise a letto la sera il popolo italiano con la convinzione che le province sarebbero state ridimensione di numero, per poi risvegliarlo al mattino con un'istituzione che, per usare una colorita e sempre efficace espressione, non era "né carne, né pesce". Del resto, il "taglio" prospettato rispondeva a un ritorno a quelle origini adulterate dall'ingordigia dei partiti che, se non nomi e cognomi, corrisponde a stagioni politiche precise e a date certe: gli anni del Pentapartito Dc-Psi-Psdi-Pri-Pli e il 1992, prologo clientelare e populista alle elezioni del 5-6 aprile con cui i partiti al potere confidavano nella rivitalizzazione della coalizione, ma che invece ne segnarono la fine insieme con quella della cosiddetta Prima Repubblica, sullo sfondo dell'incipiente Tangentopoli e delle stragi di mafia.

Fu, infatti, nel 1992 che si diede vita all'ultimo lotto di provincie più simili però a ectoplasmi istituzionali che ad autentici enti amministrativi. In Piemonte, le fanfare suonarono per gli ingressi di Biella e del Verbano-Cusio-Ossola, provincie mai diventate adulte sia sul piano politico, sia su quello economico. Non a caso, in tutta la discussione che si sviluppò a cavallo tra il 2013 e il 2014, si prefigurava la traduzione da otto a quattro province, secondo un quadrante geografico - Torino, Cuneo, Alessandria e Novara - che riannodava i fili storici, amministrativi ed economici prioritari della regione. Tra l'altro, nel Verbano-Cusio-Ossola, il 21 ottobre del 2018 si registrò la consultazione, abortita, per il passaggio alla Lombardia.

La lobotomia politica e amministrativa operata sulle Province, perché di questo si è trattato, per quanto sia legittima una sorta di elaborazione del lutto, non deve far dimenticare i costi economici (competenze e attribuzioni amministrative diventate un rebus con serie ripercussioni sulla qualità di vita dei cittadini) e umani (decine di migliaia di lavoratori dipendenti, sballottate da un ente all'altro, con grave perdita dell'identità professionale e conseguente frustrazione e demotivazione) elevati e non indifferenti causati, e su cui è calato il silenzio, in particolare della sinistra. Un silenzio diventato assordante, e non soltanto come figura retorica, per l'architettura istituzionale monca, perché bocciata con referendum dagli italiani, e dunque impalpabile, se non nella demagogica riduzione dei parlamentari, non preceduta però dalla doverosa riforma elettorale che avrebbe richiesto la modifica ai due rami del Parlamento.

Un'altra delle tante rimozioni di cui il Pd, nello specifico, si è servito per galleggiare come un sughero in un mare che cominciava a diventare tempestoso, sensibile com'era all'epoca della legge Delrio più alle sirene dell'egocentrismo e della presunzione di Matteo Renzi che al comune sentire dei cittadini, impotenti dinanzi alla gestione intermittente o inevasa di strade, scuole, ambiente e di tutte le competenze che ricadevano sulle provincie. In effetti, si può contare sul palmo di una mano chi nel Pd provò a richiedere almeno il minimo sindacale di contraddittorio interno, mentre c'era la coda per farsi rilasciare attestati di fedeltà e favori vari dall'allora Presidente del consiglio e leader di partito che, un giorno sì e un altro ancora, eternizzava in tutte le sue apparizioni mediatiche la filastrocca del 40 per cento conquistato alle Europee del 2014, come se la politica fosse diventata una rappresentazione eterna del proprio ego smisurato, e non l'espressione cogente di esami che non finiscono, né devono finire, mai, proprio per corrispondere alla rappresentazione anche etica della democrazia.

Tutto ciò dovrebbe aiutarci a comprendere che la "quistione" delle provincie, per quanto apparentemente secondaria, non è disgiunta dalla sorte del più importante partito d'opposizione al governo guidato da Giorgia Meloni (anche nell'interesse stesso dell'esecutivo per un solido e autentico confronto dialettico) e che costituisce, elemento interessante, anche uno dei paradigmi del necessario chiarimento politico all'interno delle anime progressiste del Paese, non risolvibile soltanto nel perimetro (angusto) di soluzioni amministrative e numeriche.

I processi fondativi come quello intrapreso dal Pd[2], cui si guarda per rafforzare la tenuta democratica del Paese, sono credibili se hanno come finalità non ultima quella di avvicinare nel concreto le istituzioni ai cittadini. E il concreto politico (da intendersi anche come soggetto) si misura nella quotidianità, cioè nell'esercizio di rendere usufruibile ai cittadini quanto sappiamo essere complicato e complesso, senza quelle punte di torsione di ego smisurati che nel Pd e nella sinistra hanno prodotto nell'ultimo decennio lo sviluppo di un sistema di potere medioevale, scimmiottatura anche ridicola di vassallaggio, e di una cultura "curtense", incline a una autorappresentazione asfittica.


[1] Mercedes Bresso, Sorpresa: c'è chi vuole il ritorno delle "vituperate" province in https://www.laportadivetro.com/post/sorpresa-c-è-chi-vuole-il-ritorno-delle-vituperate-province

[2] Stefano Marengo, Pd: Partito democratico o Partito disperso in https://www.laportadivetro.com/post/pd-partito-democratico-o-partito-disperso


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